Absolute Poetry 2.0
Collective Multimedia e-Zine

Coordinamento: Luigi Nacci & Lello Voce

Redatta da:

Luca Baldoni, Valerio Cuccaroni, Vincenzo Frungillo, Enzo Mansueto, Francesca Matteoni, Renata Morresi, Gianmaria Nerli, Fabio Orecchini, Alessandro Raveggi, Lidia Riviello, Federico Scaramuccia, Marco Simonelli, Sparajurij, Francesco Terzago, Italo Testa, Maria Valente.

pubblicato martedì 19 novembre 2013
Blare Out presenta: Andata e Ritorno Festival Invernale di Musica digitale e Poesia orale Galleria A plus A Centro Espositivo Sloveno (...)
pubblicato domenica 14 luglio 2013
Siamo a maggio. È primavera, la stagione del risveglio. Un perfetto scrittore progressista del XXI secolo lancia le sue sfide. La prima è che la (...)
pubblicato domenica 14 luglio 2013
Io Boris l’ho conosciuto di sfuggita, giusto il tempo di un caffè, ad una Lucca Comics & Games di qualche anno fa. Non che non lo conoscessi (...)
 
Home page > e-Zine > Nota critica a TACCUINO NERO di Nadia Agustoni

Nota critica a TACCUINO NERO di Nadia Agustoni

di Francesco Marotta

Articolo postato sabato 5 giugno 2010

Nelle mani un solco di esilio e di pietà

Nota critica a Taccuino Nero di Nadia Agustoni
(Sasso Marconi, Le Voci della Luna, “Materiali”, 2009)


Com’è che nei posti non metti radici?
C’è il morire senza luoghi l’essere frangivento,
zolla ricreata per dirmi cielo, ala,
scialo di luce e sera se in me creo speranza.


[…] La materia prima di questo mondo-narrato-narrandosi, la conversione in parola di tutto ciò che ogni giorno resta rinchiuso nel silenzio e nella separatezza di vite che si negano a ogni apertura, a ogni dialogo, a ogni conoscenza di sé e degli altri, è quella di una memoria che va alienandosi, desertificata e poi rimossa, cancellata, dai meccanismi e dalle logiche dominanti della fabbrica totale, un universo concentrazionario che assorbe e fagocita esistenze, sentimenti e sogni, riduce a enfasi o a perversione la tensione naturale all’ascolto, la capacità di dire, di comunicare, offrirsi e amare, e li rilascia come merci pronte per il mercato globale dei miraggi, strabordante di oggetti e simulacri di ogni genere, omologati dal dis-canto opprimente delle macchine e dall’in-canto del marchio che ammutolisce, insieme al pensiero, la libertà di scegliere, di decidere, di rifiutare.

Il ritorno a una lingua originaria (la necessità di reimparare a nominare “in lingua di parole”, tralasciando“pronunce che sono spine in bocca / ortica che fa bolle”), ricostruita assiemando con fili lacerati di memoria i frammenti e i barlumi di esistenza strappati alla consunzione, alla negoziazione annichilente col ritmo innaturale dei giorni, permette al poeta di attraversare questi gironi infernali e di seminarvi, durante tutto il tragitto, il germe del dubbio che risveglia e fa rinascere al pensiero (“darsi agli altri in racconto di meraviglia / perché pagata una morte qualsiasi sia salva la vita”), l’attimo di una dimensione illuminata dal soffio della similitudine, dalla piena identificazione con tutto ciò che lo circonda, uomini e cose in cui riconosce l’immagine del proprio volto franato: l’attimo di una speranza concreta di ricomposizione da cui attingere l’istanza valoriale della più alta forma di resistenza al degrado morale e fisico di tutto ciò che esiste. Il compito del poeta è definito, dunque, dalla stessa realtà di cui è parte, è modellato sulle cadenze, ormai quasi inudibili, dell’immutabile, millenario “lavoro dell’alba”: “far su le cose con gesto grezzo e grande / che t’impari quel che è creato / t’impari un sonetto di silenzi”: è la piena corrispondenza della sua voce e del suo sentire con la nudità che lo specchio creaturale, alterato dalla reificazione, rimanda come un monito a chi è ancora capace di articolare, anche confusamente, piccole, commosse, partecipi ipotesi di futuro. La poesia, allora, diventa traccia di questa tensione e registra sostanza e forma delle asperità che sul sentiero del riconoscimento si oppongono alla realizzazione di quell’incontro.

L’attraversamento dei deserti del presente presuppone la discesa della voce nelle profondità degli stagni putrescenti dove si origina il degrado, alle radici della “nostra cenere” che “cresce […] fino a toccare il cielo”, alla ricerca del taglio sanguinante dove le dinamiche e i rituali introiettati dall’esterno tracimano nell’interiorità e nella sua connaturata, necessaria propensione a dirsi, fasciando come una seconda indelebile pelle la progettualità umana insita nell’esistenza, trasformandola in un coacervo informe fatto di silenzio e resa. Una voce che non è portatrice di nessuna ipotesi di salvezza, né profetizza verità a venire parlando in nome di valori presunti, ridotti anch’essi a materiali inerti, di scarto, nel ciclo complessivo della produzione, ma si fa essa stessa, nel suo guardare, oggetto di osservazione, materia vivente delle sue stesse ferite; una voce che inciampa ad ogni passo tra i cocci di una speranza in frantumi che trafigge carne e parola col vuoto acuminato della sua assenza (“una speranza spinosa eguale all’ortica /ci lascia immaginare il futuro”); una voce che impara a leggere in ogni volto la sorgente prima della sua stessa rassegnazione, i segni della sua stessa cieca assuefazione alla gabbia: in uno spasmo continuo (“una danza meccanica / […] / ch’è scroscio /di anime incrinate”) che, proprio perché frutto della condivisione del male e del dolore, lentamente si stempera, nel corso del viaggio, e si trasforma in una tensione conoscitiva per molti versi simile a quella che anima il pellegrino dantesco perso nella selva; con la consapevolezza, comunque, che non c’è nessun cielo metafisico a illuminare orizzonti di certezza e di beatitudine, a contenere, riplasmandole e orientandole al vero, l’ebbrezza e la vertigine del volo, a raccogliere il relitto dall’inevitabile naufragio, a fare argine alla marea montante, all’onda impetuosa della mercificazione che da sempre è “arte di produrre gente che obbedisce”, uomini la cui esistenza si risolve tutta nell’“avere vita arsa di cose / che non ci comprendono”.

Si indovina sotto traccia, e la lettura attenta la conferma ad ogni verso, una sorta di fisiologia del degrado che sfocia nell’universale, mai rassegnata accettazione di se stessi come veicolo, attraverso le articolazioni del proprio corpo di parole, di una più convinta forma di resistenza. Una panoramica in moto circolare, senza la dominante dello sguardo frontale che giudica e incasella, chiamandosi fuori da ogni incandescenza o escrescenza della materia osservata; una visione dove alto e basso non sono distinti, riprodotta e descritta senza lenti deformanti o il corredo di aggettivazioni consolatorie, ma che, esprimendo nella sua pienezza la condizione primaria del nostro essere, cioè quella capacità di dire e di nominare che mantiene intatte le differenze e salva la nostra singolarità senza rinunciare all’altro, allo specchio perturbante che ci individua, controbilancia, eticamente ed esteticamente, una delle pratiche più funzionali alla legittimazione dell’esistente come precipitato naturale della millenaria storia e vicenda degli uomini: quella “archeologia industriale” che, se pure “ricostruirà / il gesto intero della vita” non potrà mai restituirci “la brama del gesto, / non il morso nella carne, il contemplare / lo spazio”: in ultima istanza, le ragioni più umane del nostro umanissimo esserci. […]




TESTI


lavoro dell’alba

Lavoro dell’alba, shock mattutino
l’aspettare, tenere l’attesa che è acino maturo,
confondersi al quadrare dell’ora
far su le cose con gesto grezzo e grande
che t’impari quel che è creato
t’impari un sonetto di silenzi
prima del rumore delle ferramenta
che esplodono quando ti maciulla il costato l’ingranaggio
e tu sei arnese che pensa e non pensa ch’è presto ancora
e tardi farai anche alla tua veglia
che hai un sonno vivo
un sonno di redenzioni e d’innocenza
dove ti tocca nascere
ma nasci appena un po’ e bambina
che avrà neanche parola neanche l’asciugarsi del pianto
né un angelo infermo che si biasima.

*

rogo-abbaglio

L’usura di chi non ha maschera ma è arlecchino
il fuoco e il tempo come due santi
e messe al tornio le cervella
sputano parole compiute.

Un rogo-abbaglio è la vita
le mie stanze con i forse imbiancati
e le parole nei libri assuefatte
o di più, o ancora, barchette di carta
e aeroplani

l’universo fermo.

*

la nostra cenere

La cenere è più vera di questi muri
un bruscolo soltanto riempie la morte
moriamo poco, ma poi non è vero
capita che moriamo di slancio tutto in una volta,
ci succede di pensarci tra giorno e sera
con piccole malinconie.

Cresce la nostra cenere fino a toccare il cielo
e lì che andremo ci è stato detto, ma intanto
ci perdiamo e perdoniamo in un gioco
in cui gli occhi ci seguono e non sanno più
chi siamo, chi siamo stati.

*

stanza

Incurante di me nell’ora che è stanza dell’io
in lingua di parole nomino il campo giallastro
e quasi acquatico, prato decenni fa,
ma senza lo bruciasse il puzzo di tangenziale
o il darsi a rovesci del cielo quand’è
neanche azzurro, ma lunare, lunatico di colore
che ti intristisce di novembre o d’agosto
per l’abbandono soltanto suo, zeppo di terra.

Qui i muri sembrano la groppa degli asini
portano i pesi di tutti, sono le chiuse sul mondo
che esplode di dentro e pizzica gli occhi
fino al dolore. Verrà una soglia per noialtri
che ci buscherà interi e saremo liberi
dal riso e dal pianto, che piangeremo vuoti
come il Signore Dio nostro.

*

storia del cane

Scherziamo sul dolore e l’averlo nella testa
c’è un coltello magico per incidere i dolori
sono le parole della quiete non dette
l’uno due e tre contati per finta
perché al via ci siamo, ma c’è il trucco.

Lo stesso succede al cane che si lancia
e trova la catena sulla fine e non prende niente
né capisce perché c’è chi ride passando
e chi ha paura di una rabbia sperduta
dell’occhio che afferra un limbo.

*

i fatti spogli

Ma è difficile tenersi all’abbaglio
succedono a noi le cose, i fatti spogli,
a un corpo cui l’ombra si fa callosa
e c’è il disturbo degli occhi
il loro ammaestrarsi a vedere soltanto
l’ovvio.

Diventiamo soli e inventiamo
di stare in disparte, di non sapere niente,
perché niente collima con l’orda dei no
come se un’altra sostanza ci facesse umani
ma è lo stesso dirlo o lasciar perdere.

L’archeologia industriale ricostruirà
il gesto intero della vita,
ma non la brama del gesto,
non il morso nella carne, il contemplare
lo spazio.

*

angelus

Abbiamo ombre leggere che muovono sui meridiani
sui paralleli e scuotono la nostra cenere, quell’inondazione
senz’arca, senza desiderio di purezza, senza nostalgia
del nostro futuro.

C’è in questa terra un non appartenere che sfiora gli occhi
e che vedano o meno, imprimano o meno le cose, è nudità
senza speranza ad apprenderci il ritornello che lottar
è già giustizia, è un timpano in cui si rinnova la parola,
il parlare senza se e senza ma e di bellezza
ma come se ci fosse all’angelus un timor di noi non di Dio.

*

al rumore del futuro

Se una vampa ci incrina, sia o non sia fuoco,
è un invito a stupirci che prende il corpo
l’anima tutta che domanda e in alto
e nella nuca un puntolino di stella ci sembra
solitaria e ci somiglia nel niente.

Al rumore del futuro non c’è il dispetto del cielo
perché non cede di sè e mette altrove l’altrove cercato
e l’illusione è come prevedibile ingiustizia
un marchingegno astruso, ferraglia.

*

la voce-realtà

E’ faglia che scolma la terra il duro sonno
grumo mi grida in bocca un perché festoso
e s’astiene la parola di bruciare, se già brucia
la vita, se è fiamma vertiginosa e vertebra.

Non ho che tenerezza oscura da dare
un buio che indovina la luce ma non l’incontra
e negli occhi l’est l’ovest il nord e il sud
che mi reclamano, dicono “ forse ”.

Ma non è mio interesse farmi tenaglia,
inchiavardare, metter fuliggine o asprezza,
qui è la voce-sogno che misura il tempo
la voce-realtà che misura il sogno.

*

c’è il morire senza luoghi

Cosa sono quegli occhi che sembra roncolino il buio?
Agito una bottiglia con la nave dentro: “ quello è il mare,
la bufera, il maestrale, è il tartagliare delle dita miracolanti
alfabeti, chiuse che s’infogano d’acqua e s’avvinghiano a
terra, polvere, erba”.

Com’è che nei posti non metti radici?
C’è il morire senza luoghi l’essere frangivento,
zolla ricreata per dirmi cielo, ala,
scialo di luce e sera se in me creo speranza.

Se questo è parlare c’è fine alla fine e al vocio
c’è insonnia nel ricordo
c’è un’idea di fame
e di rabbia innocente.

*

guarigione

Ci offrono uno spleen che non è niente.
una coppia di dadi le parole, rotolano ovunque:
stiamo guarendo di un futuro a misura d’uomo.


***


Nadia Agustoni (1964) ha pubblicato per Gazebo Edizioni i seguenti libri di poesia: Grammatica tempo (1994), Miss Blues e altre poesie (1995), Icara o dell’aria (1998), Poesia di corpi e di parole (2002), Quaderno di San Francisco (2004) e Dettato sulla geometria degli spazi (2006), Il libro degli Haiku bianchi ( 2007). Parte della sua produzione inedita è leggibile nell’E-book Dai Libri di lettura.
Collabora a varie riviste ("Leggendaria", "Leggere Donna", "A", "L’area di Broca" e altre ) e a blog letterari. Sue poesie sono apparse nella rivista Poesia e in altre pubblicazioni.
Si è occupata (saggistica) di Etty Hillesum, Elizabeth Bishop, Kazimiers Brandys, Patrizia Cavalli, Gianna Manzini, Monique Wittig e altri. Un suo scritto è nel libro: Aurelio Chessa, il viandante dell’utopia, Biblioteca Panizzi (2007).
Ha vissuto a lungo in Toscana e attualmente vive e lavora, da operaia, a Bergamo.

6 commenti a questo articolo

Nota critica a TACCUINO NERO di Nadia Agustoni
2010-06-06 00:20:04|di Giorgio

Un gran bel libro, che contiene le radici e le ceneri del nostro presente. Esemplare la nota di Francesco Marotta, per impegno vastità e profondità.


Nota critica a TACCUINO NERO di Nadia Agustoni
2010-06-05 17:54:26|

Un bellissimo libro, importante, che ha ancora meno attenzione di quella che meriterebbe. Sono contento di trovare Nadia qui, letta da Francesco Marotta che sa farlo come pochi.

Francesco t.


Nota critica a TACCUINO NERO di Nadia Agustoni
2010-06-05 17:39:03|di Liliana Z

Sintetica geneticamente e ammirata per l’analisi di Francesco che sa leggere molto bene , dico solo che Nadia è grande, intensa. Vera. Come poche/i.
Liliana Z.


Nota critica a TACCUINO NERO di Nadia Agustoni
2010-06-05 13:59:44|di Marzia Alunni

La lettura critica dei testi di Nadia Agustoni riesce a porre l’uomo, il lettore, nel cuore stesso dei problemi esistenziali. La vita è già di per sé un confronto arduo, ma l’autrice ne sottolinea, con partecipazione e misura ad un tempo, certe valenze negative: le contraddizioni che fanno soffrire e spesso sono legate all’attività lavorativa, all’impegno quotidiano di essere. Lavoro, per la società troppe volte ignara, o irriconoscente, ma anche per se stessi, nel tentativo di trovare le risposte a quelle contraddizioni della vita così pesanti da digerire: il dolore, l’ingiustizia, specialmente quella a sfondo sociale, oppure l’estraneità da i troppi legami condizionanti il proprio futuro. Eppure l’uomo aspira a completarsi negli altri, ad essere libero insieme a loro, perchè dunque le incomprensioni,la solitudine e lo sfruttamento? e’ questo il labor, l’altro significato inerente al patire, al subire gli strali della vita.
Francesco Marotta ripercorre le tappe di questa poesia, con un’attenzione esemplare, anche il lettore, abituato all’apprezzamento delle prove poetiche dell’Agustoni, si sorprende a riflettere sulla nuova visione, il taglio diverso, che questa pagina critico-poetica è riuscita ad evocare. Il concetto di "degrado", per citare, è molto interessante. Con ragione Marotta lo collega al clima di questa poesia, non escludendo un’aprirsi alla speranza, seppure in estremis, quale possibilità inverificabile di salvezza per la dignità umana più volte ferita. La nobilitazione è operata dalla voce della poesia, riscatto e denuncia. L’esistenza non perde i suoi connotati negativi, ma acquista una sorta di terzo occhio, immanente alla vita, che assegna la bellezza al grigiore quotidiano e ... l’impoetico diviene poesia.


Nota critica a TACCUINO NERO di Nadia Agustoni
2010-06-05 13:33:29|di Anna Maria

Nota critica profonda e, insieme, di ampio respiro, che ha il pregio particolare di mettere in rilievo, dando loro nome e voce, le caratteristiche originali, inimitabili, del "Taccuino nero" di Nada Agustoni. Alla scelta di poesie, ottima, aggiungo "sanza male", che ho proposto anche qui


Nota critica a TACCUINO NERO di Nadia Agustoni
2010-06-05 12:41:30|di stefania

Sto leggendo Taccuino Nero proprio in questi giorni. Le parole di Nadia Agustoni lasciano segni profondi. Il suo sguardo sulla fabbrica, sulla vita, sullo stato delle cose è coraggioso, necessario. La ringrazio


Commenta questo articolo


Un messaggio, un commento?
  • (Per creare dei paragrafi indipendenti, lasciare fra loro delle righe vuote.)

Chi sei? (opzionale)