Absolute Poetry 2.0
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Note su Ricciardi e Ronchi, di Stelvio Di Spigno

Testo di una relazione per la presentazione di "Plastico" e "Canzoni di Bella Vita"

Articolo postato martedì 30 ottobre 2007
da Lorenzo Carlucci

Riporto qui sotto (e, in allegato, in formato .pdf), una relazione di Stelvio Di Spigno su "Plastico" di Jacopo Ricciardi e "Canzoni di Bella Vita" di Valentino Ronchi, in occasione della presentazione dei due libri a Roma, 7 Novembre, John Cabot University.

Presentazione di Plastico di Jacopo Ricciardi e Canzoni di bella vita di Valentino Ronchi

Due poeti, due mondi, due metodi di scrittura diversi e pressoché opposti. Eppure entrambi titolari di un’originalità che non è merce comune oggi. Non che non vi siano originalità e personalità vere o presunte, ma nel senso che in un tessuto tendenzialmente retrivo e poco aperto alle novità come quello italiano (pensiamo che nell’università italiana, nel versante dell’italianistica, la poesia moderna è quella di Leopardi, mentre il contemporaneo si ferma a Pasolini e in casi più rari a Zanzotto), chi scrive o lo fa in modo rigoroso o è meglio che non ci provi neanche. Questa serata vuole essere, oltre che una canonica presentazione di due autori e due libri, una sorta di omaggio alla novità e alla inusualità della poesia. Anzi, io vorrei che fosse proprio questo il tema di questo incontro.

*

Plastico di Jacopo Ricciardi: una scrittura senza riferimenti, una scrittura pregna di una grazia avvolgente, che vira e tende verso l’infinito, verso una fenomenologia dello stato d’animo che crea la scrittura, che si crea mentre il soggetto la scrive, malgrado se stesso, in armonia con se stesso, eppure in modo separato da essa; tanto che essa pare fluire sotto gli occhi di Ricciardi come un fiume in piena. L’autore, o se vogliamo dirla con un termine abusato, l’io poetante, vuole comunicare questo «brivido lungo», ma non sempre riesce a trovare un interlocutore che comprenda: ma anche questa solitudine diventa materia poetica, dicibilità e finzione, funzione del testo. E’ una poesia cosmica, volutamente trascendentale, che guarda le cose del mondo dall’alto, come una luce divina che scende sulla materia del mondo. Stati d’animo trascendentali sono l’approccio, anche brevissimo, a una regione dove si vede e si ascolta l’eternità, i granelli del deserto e le stelle che si fondono tra loro, il mistero dell’universo come lo vedrebbe un bambino, che torna a una pronuncia elementare, quindi ancora più suggestiva, delle cose, ovvero del tutto. Eppure è il processo scrittorio a determinare questa lunga sequenza di stati d’animo:

[…] le tue
parole si spengono senza giungermi,
non c’è invenzione, sono
così vicino al divenire della
parola, essa succede, e succede
fino a perdersi, suppongo, ed
io la seguo, e quale
paese inizia, credo che la
parola si svegli, io voglio
essere lì in quel momento […]

euforia e misticismo della parola, visione, significato che si apre, che «succede», che scopre mondi, che diventa tramite di una percezione abnorme, da parte dell’io, che è «lì» nel momento in cui la parola scopre se stessa, palesa la sua potenzialità conoscitiva infinita, al limite di ciò che può essere detto e sentito da un essere umano. Sono molti i referenti anteriori che si possono ritrovare in questa poesia: da quello più vicino (eppure lontanissimo) del Viviani di Silenzio dell’universo, a maestri accertati come Bonnefoy, e ancora più indietro Hölderlin, fino al Dante del Paradiso (forse persino a Jacopone da Todi); ma io mi soffermerei proprio sulla terza cantica della Commedia dove il personaggio Dante diventa tutt’uno col Dante-autore per assistere alla visione dell’ultimo canto, dopo la preghiera per l’intercessione della Vergine fatta da San Bernardo affinché Dante potesse vedere Dio:

Oh abbondante grazia ond’io presunsi
ficcar lo viso per la luce etterna,
tanto che la veduta vi consunsi!
Nel suo profondo [di Dio] vidi che s’interna,
legato con amore in un volume,
ciò che per l’universo si squaderna;
sustanze e accidenti e lor costume
quasi conflati insieme, per tal modo
che ciò ch’io dico è un semplice lume.

Anche qui autore e personaggio di questa poesia tendono a coincidere, non ho citato a caso le tre terzine più belle di Dante, anche se non voglio proporre, come fanno in molti, accostamenti pleonastici e talvolta ridicoli. Eppure, tanto elementare e purificata è la dizione delle singole parole, quanto complessa e affascinante è la struttura di questa poesia; un poema unico a più lasse come quello di Ricciardi non potrebbe raggiungere l’effetto che ottiene se non attraverso una libertà metrica totale, catene sintagmatiche lunghissime, apposizioni, ripetizioni che tengono legato il discorso in modo che nulla vada perduto. L’uso insistito della virgola compensa la scomparsa di ogni altro residuo di punteggiatura, e fa in modo di arrivare a un effetto di patema, di affanno, questo anche grazie all’uso di versi prevalentemente brevi, settenari, ottonari (metricamente di varia natura accentuativa) intrecciati tra loro da arditi enjambement, endiadi, iperboli e conseguenti episodi di litote, apofonie che cambiano in continuazione la coloritura del canto e improvvise frasi apodittiche, che denunciano un impegno veritativo di altri tempi. Può apparire inopinata una descrizione minuta di una poesia come quella di Ricciardi, ma essendo sicuro che l’abbondanza e la varietà di figure metriche, stilistiche e retoriche pervengano all’autore in modo non studiato ma pressoché spontaneo, anche questo andrà aggiunto come punto d’onore di questa poesia, il cui solo difetto, a voler proprio trovare il classico pelo nell’uovo, può essere ravvisato in un eccesso di astrazione che si palesa in alcuni tratti, dove si trova forse più concetto che aderenza alle cose. Ma questo libro è tutto da leggere, da ascoltare, da interiorizzare e meditare: trovo che si tratti di una operazione letteraria valida e rara, inattuale come ogni vera poesia che si nutra di «apertura» e non di «risentimento». Nella prefazione Cucchi parla di Plastico come di una poesia che parla di se stessa: questa definizione può valere magari per il primo Magrelli; qui gli attori sono la parola, l’universo, la visione, l’io che la crea, la ammira, che a tratti ne è persino vittima:

Vorrei urlare, eppure non
urlo, non posso urlare, un
silenzio immortale, coi pezzi di
tutte le cose, di tutte
le cose dette fin qui,
l’ampia distesa del mare,
riempie tutto, compie tutto, si
compie, questa carnagione, carnagione del
cuore, urlo così forte, nel
mare di questa scrittura […]

Ma soprattutto l’Ontos, l’Essere delle cose, unione di vita e morte, sentimento e ragione, forza del cielo e avvilimento della terra, carne e «spirito santo», a qualsiasi area semantica e ideologica vogliamo consegnare questa espressione, pronuncia diretta e convulsa di cose che si oppongono tra loro: ma ogni grande poesia non è forza e unione di ciò che è diviso, un vuoto che si riempie di parole salvifiche, opposti che coincidono, un puro suono che diventa immagine di un artefice che crea il tutto dal nulla?

*

La chiave di volta per l’approccio a Canzoni di bella vita di Valentino Ronchi è una citazione dall’Odissea, posta in apertura della sezione Estate semplice, la seconda del suo libro. Le Canzoni si configurano anch’esse come un tutt’unico, hanno il respiro di un romanzo per capitoli che si uniscono ma che definiscono fasi diverse dell’esistenza: una presente e viva, che si svolge a Parigi durante un soggiorno di studio, e poi all’indietro, nella terra d’origine, che fa riemergere le fasi di una educazione sentimentale a volte sofferta, altre volte più gioiosa e pacificata. Viene in mente, di primo acchito, il decantamento esistenziale di Giudici, che pare il riferente più prossimo, ma la forza di questa poesia sta proprio nel rifiuto a priori di maestri vicini e lontani.

Umberto Piersanti parlava, qualche tempo fa, dalle pagine di Atelier, di una esecrabile koiné della giovane poesia italiana, la tendenza di una poesia in prosa, a suo dire più facile da scrivere: una poesia che non si assume il rischio di cadere in una qualche “maniera”, che l’utilizzo più evidente di una qualche forma di metrica sostanziale potrebbe arrecare. Cosa ne capisca di questioni metriche Piersanti, aspetto sempre che qualcuno me lo spieghi, visto che se c’è una cosa che questi ultimi anni ci hanno insegnato, è che le forme classiche della metrica quantitativa non sono soltanto quelle ‘verticali’, ma che la musica e l’intonazione di un testo poetico possono correre anche su linee orizzontali: vi sono endecasillabi, settenari e altri misure anche nel ipermetro, ma si richiede un ascolto attento e competente, che non tutti, fatalmente, hanno.

Le Canzoni di bella vita sono invece un caso a sé: i veri protagonisti sono i realia, le cose quotidiane, i libri, le strade, le persone, le giovani donne che turbinano intorno a un soggetto che sembra trovare una forma di salvezza solo nello spostarsi continuamente. Non è dietro la siepe, immaginando l’Infinito che il soggetto è ‘riparato’, ma solo in un continuo spostarsi e cambiando angolo di visuale che ottiene il suo risultato: un’odissea, appunto, una vita libera, lontano da condizionamenti, e una poesia che saggia gli stati d’animo a partire dalle diverse cose che gli accadono, dai molteplici incontri che sembrano destinati a perdersi un attimo dopo; una ricerca di legami con qualcosa o qualcuno che viene quasi sempre, se non frustrata, almeno elusa o rimandata.

Ho fatto un sogno. E’ scesa e mi ha parlato e
mi ha fatto salire la signora che avevo creduto
di vedere alla finestra della casa di Jankélévitch.
Primo dicembre nebbioso, sole sopra la nebbia.
La luce accesa, io aspettavo al tavolo, è arrivato
dal corridoio con i fogli in mano, si è seduto
mi ha spiegato certe cose, come le intendeva lui
e come avevo scritto io, e il gatto ci camminava
fra i piedi partecipando alla discussione. Una calma
parlarci assieme e ragionarce. Ma poi era mattina

dalla finestra del letto, primo dicembre nebbioso,
sole sopra la nebbia. Ho fatto le due caffettiere
mi son vestito e sono uscito. Occorre rassegnarsi,
anche i filosofi che parlano come poeti muoiono.

Una materia del genere non poteva che generare una poesia prosastica, dal respiro lungo e leggero, una rimozione quasi totale delle scorie novecentesche a favore di uno stato d’animo neutro. In altre parole l’io si sottopone alla realtà senza giudicarla, frenando la tentazione di amarla e fermarvisi sopra, sapendo che un attimo dopo tutti gli attori della vicenda passeranno alla vita di qualcun altro, e non c’è niente da fare.

La casa che mi han trovato è al terzo piano in rue Vavin,
un letto, un bagno bianco e una cucina dietro la porta
a soffietto, due caffettiere, un mobile vuoto ho cominciato
a metterci i libri. L’uomo al primo piano mi saluta, un giorno
che tornavo, la spesa in braccio come un francese qualunque,
mi sono presentato. E al mattino, per Saint Michel, un vento
leggero. Se resta così l’autunno, occorrerà ripensare l’idea
di Parigi grigia e piovosa. In università le ragazze arrivano
a grandi gruppi o sole, libri sotto al braccio. In sala lettura,
Il Non-so-che e il Quasi-niente sul tavolo, la foto viso magro
di Jankélévitch, i capelli pettinati da una parte e il modo suo
di scrivere, così poco da filosofo. Tempo qualche anno ancora
e lo cacceranno in fondo ai manuali, qualche riga fra i minori.
— Ma di questo, francamente, poco importa - dico al professore
suo allievo anni fa. Ora occupa il suo ufficio, capisce di che parlo.
— Certo - dice e solleva gli occhi - certo -. Prima della cena poi,
a studiare, pagata la stanza e il mangiare e i libri, se li compero,
sarà un mondo, penso. E quando rincaso, se incontro l’uomo
al primo piano, mi saluta con un cenno della testa, con la mano.

Sarà una mia impressione, o forse una mia idiosincrasia, ma c’è qualcosa di orgoglioso e felice nell’enumerare le ragazze che si siedono o che parlano col protagonista di questa poesia; un grande orgoglio nel mostrarsi presente alla vita così come viene, una vita senza una direzione rintracciabile, che il soggetto mantiene segreta e ammantata d’ironia, quanto basta perché non si perda tra le cose, in una metropoli come Parigi, ad esempio, dispersiva e caotica per antonomasia. Questo dalla parte di chi scrive. Mentre per chi legge, resta una sottofondo di malinconia, una sorta di sostrato elegiaco che fa da filo conduttore all’intero libro. Ed è questo il punto d’onore e insieme di eversione delle Canzoni di Ronchi. Una poesia dell’incontro e della ricerca degli altri è sempre sul punto di far uscire una lacrimuccia, di sfociare nel ricordo e di provocare una sorta di malessere per tutto ciò che passa e non resta. Ma a Ronchi interessa il presente, non il passato. Non dico che questo poeta non senta anche un po’ di confusione attorno e dentro di sé. Ma non usa tropi e metafore usuali per farle accogliere anche a noi. Il suo metodo? La velocità. Passare da una situazione a un’altra in modo così repentino da confondere e lasciare interdetti noi, che vorremmo sapere di più su cosa gli accade e quasi ci dispiace che il poeta non si sia soffermato di più sui singoli episodi. E’ così che si spazza via la retorica del Panta Rei, ed è così che le vita funziona. A voler trovare il pelo nell’uovo si potrebbe dire che in qualche punto un po’ di asciuttezza in più non guasterebbe. Ma siamo sicuri che poi l’intera operazione di Ronchi non ne venga snaturata? E qui mi fermo, per lasciare ai nostri due poeti il tempo e lo spazio necessario per una lettura, per l’ascolto diretto della loro voce.

*

Ma diciamolo senza girarci intorno: la poesia, e in generale la nostra letteratura non godono di un momento di particolare salute; s’impone quindi una risposta incisiva e rapida alla mancanza di novità che affligge la nostra produzione letteraria; e seppure da versanti opposti, libri come quello di Ronchi e Ricciardi increspano la calma piatta che si respira da troppi anni nella Repubblica delle Lettere italiana; è solo con libri come questi, insoliti, coraggiosi, turbolenti e magmatici che qualcosa ricomincia, da sempre, a muoversi; non a caso questi due autori così validi e diversi sono stati ‘accoppiati’ in questa presentazione, come ho detto in apertura; c’è bisogno di svecchiare il linguaggio, di lasciarci il Novecento, il secolo letterario nato ricco e morto povero (per dirla con Segre), alle spalle: i due poeti di questa serata lo stanno già facendo. Non posso che fare loro i miei migliori auguri.

Stelvio Di Spigno

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