di Stefano La Via

Stefano La Via si è formato presso le Università di Roma "La Sapienza" e di Princeton.
È professore associato di Storia della poesia per musica presso la Facoltà di Musicologia di Cremona (Università di Pavia).
Ha pubblicato numerosi saggi sul rapporto fra poesia e musica in varie epoche storiche, dal medioevo ad oggi.
Fra i suoi libri:
Il lamento di Venere abbandonata. Tiziano e Cipriano de Rore, Lucca, Libreria Musicale Italiana, 1994;
Poesia per musica e musica per poesia. Dai trovatori a Paolo Conte, Roma, Carocci, 2006

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Oltre le attese e i voli di Pedro
(MélosPolitico 2)

Articolo postato martedì 27 luglio 2010

Chissà se qualcuno ha poi trovato il tempo di leggere e, soprattutto, di ascoltare le quattro canzoni del primo MélosPolitico. Forse ho un po’ esagerato nelle dosi. Anche per questo ho fatto passare un po’ di tempo prima di decidermi a proporvi, come promesso, una breve analisi di Pedro pedreiro e Construção / Deus lhe pague. Non si spaventi chi è sprovvisto di competenze tecniche: in fondo i fenomeni poetico-musicali in questione, tutti facilmente percepibili al primo ascolto, possono anche essere descritti in parole semplici, senza bisogno di trascrizioni, tabelle, grafici. Ogni tanto sarò costretto a prendere in prestito da linguisti e metricologi qualche vocabolo un po’ astruso (e di questo chiedo scusa in anticipo al lettore più sensibile); altri termini non proprio comuni (dallo stesso mélos a melopoeia) sono stati già abbondantemente definiti nei post precedenti. Spero solo di riuscire a illustrare come la potenza espressiva di entrambe le canzoni—e dunque anche la forza dirompente del loro più o meno implicito significato ‘politico’—dipenda non solo dalla rispettiva qualità dei versi e della loro intonazione, ma anche dalla loro costante interazione reciproca, dal loro profondo grado di fusione poetico-musicale.

Già la prima strofa-ritornello di Pedro pedreiro costituisce un mirabile esempio di melopoeia verbale: quattro versi irregolari ma unisoni, di varia lunghezza ma uniti esternamente dalla stessa rima, si succedono per dar vita a un vero e proprio ‘treno di parole’. Anche senza ascoltare l’esecuzione di Chico Buarque, anche senza comprenderne i significati, basterebbe leggere questi quattro versi a voce alta (facendo una breve pausa solo dopo trem) per coglierne l’impressionante effetto onomatopeico d’insieme. V’invito a farlo, con o senza l’aiuto delle indicazioni aggiunte qui di seguito (l’ictus delle sillabe toniche è segnalato tramite accento acuto, le più importanti relazioni fonico-timbriche sono evidenziate in neretto, corsivo e/o sottolineate):

Pédro pedréiro penséiro esperándo o trém
Manhã, paréce, caréce de esperár também
Para o bém de quem tem bém
De que não tém vintém

Salterà subito all’orecchio (ma anche alla bocca, ai denti, al palato, fino a ogni più intimo anfratto dell’apparato fonatorio) l’insistenza degli accenti forti sulla é (vocale nettamente predominante), e ancor più l’uso ossessivamente percussivo di allitterazioni (Pedro, pedreiro, penseiro, etc.), paronomasie (parece / carece, tambem / tem bem, etc.), ricorrenze anche interne della rima esterna (bem, quem tem, não tem, anch’esse in rapporto di paronomasia).
C’è anche molto altro, naturalmente, come l’assoggettamento delle leggi della metrica a quelle della ritmica musicale, oppure l’impiego di neologismi di grande forza sintetica oltre che prosodica (penseiro, ad esempio, sembra provenire direttamente da un romanzo di Guimarães Rosa, il Joyce della narrativa brasiliana). Tutti questi elementi—di per sé più che sufficienti—sono ancor più esaltati dall’intonazione musicale: soprattutto, dalla nervosa agitazione dei suoi ritmi sambistici, dei suoi altalenanti gesti melodici (discendenti e poi sempre più ostinatamente ascendenti) e giri armonici (che non descrivo per pietà del lettore).

Il punto è che il risultato di quest’impressionante onomatopea poetico-musicale, in ogni singolo dettaglio come nel suo complesso, non è mai in alcun modo fine a se stesso, ma è funzionale alla rappresentazione di una ben precisa situazione pratica, e condizione psico-fisica, che a sua volta rimanda ad una più vasta realtà esistenziale, sociale, politica. Inizialmente, si tratta della banale attesa / speranza (in portoghese esperar può assumere entrambi i significati) di un treno come un altro; ne è protagonista un muratore qualsiasi, dal nome comunissimo eppure tutt’altro che casuale: Pedro. È lui che aspetta alla fermata della stazione, apparentemente immobile come una pietra (pedra), in realtà in preda ad una crescente e ben giustificata agitazione interiore, presto sconfinante in panico: il treno che dovrebbe portarlo al lavoro, infatti, che dovrebbe ridargli un minimo di speranza sul proprio futuro—lui lo sa bene sin dalla prima strofa—non arriverà mai. Più si procede in avanti, e più l’esteriore clangore ferroviario di quei versi sambanti si trasmuta nel ritmo tutto interno di un’angoscia crescente. La progressiva dilatazione del testo, anch’essa interna, ottenuta tramite varie forme d’iterazione poetico-musicale, trasmette nel modo più semplice ed efficace il senso di un’attesa senza fine: è soprattutto la ripetizione ossessiva di esperando a far sì che l’attesa di Pedro (riguardante non solo il treno, ma anche il carnevale, l’aumento, e ogni altro possibile motivo di felicità) si spogli progressivamente di qualsiasi senso residuo di speranza. Nella chiusa ritroviamo un Pedro non più penseiro ma doppiamente pedreiro, impegnato in un ultimo e ancor più ostinato sforzo d’attesa / speranza (con triplice ripetizione dello stesso verso, Pedro pedreiro pedreiro esperando). Sembrerebbe persino che il suo sforzo sia premiato dall’arrivo in extremis del tanto sospirato trem: nell’esecuzione di Buarque, infatti, la declamazione dapprima lenta e poi via via sempre più accellerata di que já vem (che già viene) riproduce la locomozione stessa del treno come in una ben congegnata onomatopea isomorfica.

Si può dunque pensare all’inatteso aprirsi di un ultimo barlume di speranza? Macché. Pedro pedreiro rimane, per eccellenza, la canzone della speranza negata: di un’Espera sin dalle premesse desesperançada, disillusa, vanificata. Ce ne dà piena conferma il sambista Jasão de Oliveira, protagonista di Gota d’água (1975), pièce teatrale ispirata alla Medea di Euripide, scritta interamente in versi da Buarque insieme a Paulo Pontes (cosa aspettiamo a tradurla e a metterla in scena anche in Italia?). Secondo questa moderna reincarnazione brasiliana del mitico Giasone, a distanza di dieci anni il treno di Pedro non è ancora arrivato, ed è l’intero popolo brasiliano che si è già da tempo stancato di aspettarlo. Nel passo in questione Jasão affronta il suo padrone e sfruttatore Creonte in termini inequivocabili: ”Te lo dico io chi è il brasiliano, / anima di marginale, fuorilegge, / abbandonato in riva al mare, puttaniere, malandro incurabile. […] Tutto quel che abbiamo, qui, di pietra e cemento, / strade di asfalto, automobili, ponti, / viadotti, appartamenti condominiali: / è stato lui a farlo, tenendosi gli avanzi. E mentre lo faceva, se ne stava zitto, / paziente. Adesso, quando paga, / lo fa perché è più che arcistufo / di aspettare ancora il treno. Che non viene… Brasiliano”.

Ma il nostro Pedro, nel frattempo, ossia nel 1971, almeno un tram l’avrà preso per poter andare a lavorare alla sua ultima Construção. Il linguaggio poetico-musicale di quest’altro monumento della canzone brasiliana, non solo il suo stile ma anche l’inconfondibile logica isomorfica del suo mélos, rimane quello già percepito in Pedro pedreiro. Cambia, naturalmente, la situazione rappresentata: dalla più inutile delle attese si passa alla più tragica delle cadute, dall’immobilità al volo, dalla morte della speranza alla morte dell’uomo che si è stancato di nutrirla. Proviamo, anche in questo caso, a leggere solo i primi quattro versi (ora con accenti acuti solamente sulle sillabe toniche di maggior peso metrico):

Amóu daquela véz como se fósse a úl – ti – ma
Beijóu sua mulhér como se fósse a úl – ti – ma
E cáda filho séu como se fósse o ú – ni – co
E attrávessou a rúa com seu pásso – mi –do

Anche senza musica, anche a prescindere dai significati, ciascun verso ci trasmette il movimento ben cadenzato di una rincorsa seguita da caduta finale: laddove la ‘rincorsa’ corrisponde alla scansione in levare di ben 11 sillabe, la ‘caduta’ alla parola sdrucciola conclusiva; niente di simile si potrebbe ottenere con un verso più corto (in quanto privo dello spazio necessario alla rincorsa), tanto meno se chiuso da parola piana o tronca (in assenza cioè di caduta). Ancora una volta l’effetto puramente verbale è potenziato dall’intonazione musicale, soprattutto sul piano ritmico-melodico: la rincorsa è resa con la ripetizione, veloce e martellante, danzante, di una stessa identica altezza, culminante in un lieve balzo ascendente (se fosse a) che rende a sua volta possibile la caduta melodica finale (última). Va detto, per inciso, che qui Buarque rivisita una tecnica antichissima (l’impiego del verso sdrucciolo in relazione a immagini di squilibrio, ebbrezza, caduta), ben nota già ai madrigalisti rinascimentali come ai librettisti d’opera, arricchendola naturalmente di significati e implicazioni quanto mai moderne (nell’Italia di oggi, oserei dire, forse ancor più attuali del Brasile di allora).

Lo stesso procedimento poetico-musicale è applicato non solo a ciascuno di questi primi quattro versi, ma anche—con minime varianti—a tutti quelli successivi. In totale, si tratta di ben 41 versi rigorosamente sdruccioli, suddivisi in tre blocchi strofici (17 + 17 + 7), ognuno dei quali si chiude con la rappresentazione variata di un’unica morte: quella “contromano” di chi precipita da un grattacielo in costruzione, nella costante indifferenza dei passanti, “ostacolando” via via il “traffico”, il “pubblico”, il “sabato”. Non solo l’intero edificio verbale è costruito su ‘versi-mattoni’ a terminazione proparossitona, ma passando da un blocco strofico all’altro le stesse parole-rima sdrucciole vengono riorganizzate in modo da perdere via via l’originario senso logico; così da poter rappresentare non più solo il volo mortale di un muratore ma anche un più vasto precipizio esistenziale, una più universale perdita di baricentro, identità, contatto con la realtà circostante. Anche su questo piano per così dire ‘architettonico’, il crescendo delle cadute e ricadute, della progressiva disumanizzazione e perdita di senso, viene amplificato a dismisura da un accompagnamento sempre più ricco, clamoroso, assordante, parossistico, caotico; gli strumenti di un’orchestra colossale, ricchissima, significativamente mista (a un tempo classica e popolare, mahleriana e sambistica) si uniscono alle voci di un coro maschile in modo tale che la voce solistica di Buarque, alla fine, non risulta più in alcun modo udibile.

Nella coda di Deus lhe pague, ancor più sconnessa e turbolenta, la formula liturgica di una preghiera viene rivisitata, distorta, rovesciata in modo da dar voce a un’autentica maledizione. Non si potrebbe forse rendere più violentemente esplicito ciò che in Construção era rimasto (mal)celato fra le righe di quello che lo stesso autore ebbe modo di definire, con evidente ironia, “un semplice esperimento formale, un gioco di mattoni”. Nella stessa dichiarazione, del 1973, Buarque aveva aggiunto che la sua canzone “non aveva niente a che fare con i problemi degli operai - sin troppo evidenti, purtroppo: basta aprire una finestra e guardare”. Potrei fermarmi qui, ma, a scanso di equivoci, concludo citando e parafrasando le parole della linguista brasiliana Adélia Bezerra de Meneses (Desenho mágico: Poesia e política em Chico Buarque, 1982, pp. 144-54), a sua volta ispirate a un postulato di Theodor W. Adorno (Discorso su lirica e società, in Note per la letteratura, 1943-1961): “la dimensione sociale prende vita, in poesia, attraverso il linguaggio” che, in tal senso, agisce da “mediatore fra l’uomo e la società. […] Per questo in ciò che ‘non andava oltre una esperienza formale, un gioco di mattoni’ (nelle parole di Chico), il sociale emergeva con una forza così grande”. A prescindere dalle intenzioni o dalle emozioni vissute dall’autore al momento della creazione, è proprio in virtù di quel suo puro “gioco di parole” che il “messaggio sociale” ha modo di essere trasmesso, e in maniera così efficace.

Buona estate a tutti

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