Absolute Poetry 2.0
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Omaggio a CONTRONATURA di Massimiliano Parente

(un corpo di parole non pacificate)

Articolo postato giovedì 9 aprile 2009
da Nevio Gambula

«Io non scrivo pensando a un pubblico, come gran parte degli scribacchini che bazzicano nel tuo salotto, ma per la letteratura e anche, se vuoi saperlo, contro la letteratura».
Massimiliano Parente, Contronatura, Bompiani 2008

Ora è la parola che deborda: è la parola che non si dà pace, che si abbandona alla negazione del quietismo e del conformismo; è la parola che ferisce l’armonia, al di là di ogni intrattenimento.
La parola dunque sbanda, percorrendo una strada che non porta da nessuna parte: all’inizio di ogni deviazione il cartello scrive Per niente e per nessuno e quel poco che resta è il cammino stesso. Si continua.
L’astio è la forma di un amore. L’autore ama il cammino; vorrebbe trovare un senso, ma sa che questa speranza è un’illusione. Allora rivolge contro quella stessa speranza il suo sberleffo. L’astio è la forma di un odio. L’autore è colui che si situa in questa contraddizione. Per la letteratura e anche contro di essa: estasi e fallimento.
Quando la parola non scende a patti, quando si situa scorbutica su quell’abisso a venire, il godimento dello scrittore è nel disprezzo, anche di se stesso. Ma se continua a scrivere, quand’anche scrivendo soltanto l’impossibilità di scrivere, il disprezzo diventa a suo modo illuminante. Il lettore assiste allo smottamento, restandone abbagliato. Tutto il fascino è nello smarrimento.
Il lettore, esposto qui nell’omaggio, cerca il suo appagamento nell’esito estremo. Godimento perverso. Il suo piacere si rivela nell’invenzione deformante. Quel modo di trattare la parola, quel rovesciare il discorso, quel groviglio di gesti finalizzati a sé soltanto, quella apoteosi senza referente, cosa può avviare? Anche leggere, come l’atto stesso dello scrivere, è una partita persa. Ma si continua.
Camminare incerti, senza l’ausilio di un lume, per le strade insidiose della parola, senza credere necessario cogliere il senso della fabula. Gioia del corpo verbale. Così si esalta il lettore: nel procedimento. Si esalta del linguaggio che parla di se stesso; delle interruzioni imposte al linguaggio comune; delle trame che si piegano al processo; dei ritmi ingombranti; del caos. Ora è la percezione che si risveglia: al di là della stupidità che difende l’ordine. Ora è la parola illeggibile. Che tradisce l’attesa.
Sfuggire al tempo.

Il tempo è storico, non c’è scampo. E cos’è il nostro tempo? È il tempo dei fantasmi, dei simulacri, dell’apparenza: un’assurda irrealtà in divenire. Si può «attraversare il fantasma»? La letteratura può farlo, a patto di non rispettare la convenzione che la vuole centrata e lineare; a patto di fare esplodere la sua stessa forma. Un eccesso eccentrico. Se con il Gattopardo la letteratura si orienta definitivamente verso il prodotto di consumo e di intrattenimento, è con il rovescio del Pasticciaccio che matura la possibilità del suo contrario. Il totale rifiuto opposto da Gadda nei confronti del tempo si sostanzia in una scrittura che eccede la norma; e l’infrazione del letterario è sempre un modo di colpire i falsi valori della società. È un modo di interrompere lo scorrimento del tempo e di mostrare il volto che si cela dietro il drappo trasparente. Il fantasma è nudo.
Esageri sempre, Parente.
Cosa coglie di essenziale l’esagerazione di Massimiliano Parente? Intanto, l’impossibilità di non vivere il disastro. La qualità del simulacro è negativa; ma ci siamo dentro. È la nostra verità; è il nostro «orizzonte indépassable». Lo scenario immaginario inventato dall’autore Parente è lo spettacolo macabro ma ineluttabile del tempo, reso eterno dal pettegolezzo quotidiano e dalla solerzia obbediente dei sottoposti, quella del personaggio Parente compreso. Il principio della finzione scopre una decadenza generalizzata, dove il tempo scorre sazio, insipido, senza contenuto, sinceramente ipocrita; dove è familiare la televisione, la sua lingua illusoria, i suoi veli mistici. È il tempo che decreta il trionfo dell’etica dell’apparire, dell’epistemologia della forma brillante, dell’ontologia dell’esserci senza qualità. È la civiltà del feticismo reso spettacolo. È l’umanità che si rende disumana.
Ecco: siamo condannati alla vita; al «maledetto caos della vita»; all’«inferno dei viventi». Come ribellarsi contro l’uomo? Questa è la domanda fondamentale dell’opera: qui l’autore, inventandosi un percorso spiazzante, rovescia l’idea che la parola possa essere «curativa» e che la letteratura conservi una sua funzione «educativa»; qui l’autore, del tutto scevro da ogni illusione di poter salvare il mondo, crea la propria risposta all’interno dell’opera stessa, nell’ingorda imprudenza che smerda i confini; qui si può, affidandosi a una forma artistica letale, sfuggire alla prosa del mondo e all’estenuante battaglia per il consumo; si può dire l’equivoco della vita.
La risposta dell’autore è dunque la sua stessa opera: la letteratura non può dire altro che la propria opposizione alla vita. Questa essenzialità è colta dallo sproloquio tormentato di Parente.
Il tempo lascia esausti. La parola tenta la fuga.

La parola fugge il centro, si realizza come una scoria, tra inserti polemici e accenni di trama. Da una parte, ci sono le situazioni e i personaggi; dall’altra annotazioni di carattere “filosofico” sulla letteratura e sulla vita. L’organizzazione complessiva dell’opera passa dall’attraversamento continuo di questi piani, come se le tensioni interne alla vicenda non possano darsi separate dall’universo di pensiero che ne ha permesso l’invenzione. L’esibizione degli inserti, infatti, ha la funzione di spostare l’attenzione del lettore dallo sviluppo della trama alle motivazioni dell’autore Parente, che parrebbe coincidere, almeno in questi frangenti, con il personaggio Parente. Nell’opera, quasi morbosamente, la trama viene strappata a se stessa, facendola retrocedere a elemento secondario, mentre il procedere battagliero del patrimonio coscienziale dell’autore, che evidenzia, anche emotivamente, il suo posizionarsi nell’universo dei discorsi, suggerisce un atteggiamento intrinsecamente “politico”. L’intento parodico e la tensione a ridicolizzare lo star system coincide quindi con l’avversione radicale per la stupidità che annulla la ragione nella fede, per la banalità dell’occidentale medio, per le opinioni mediatiche generaliste, e in particolare per la letteratura di consumo, in una riluttanza sprezzante ad accettare una impostazione di prodotto giornalistico o d’intrattenimento narrativo. L’opera rende testimonianza di questo disprezzo.
Ma qui siamo già dentro una disperazione: siamo nei pressi del divergere beckettiano, dove il disprezzo è senza mèta. Il disprezzo vorrebbe rinfrancare la letteratura da se stessa, ben sapendo che questo atto crudele di smarcamento è vanità. La vanità della letteratura. In nome della letteratura. Ora è la parola che trema.
Parente dunque è imprigionato nel suo doppio e disegna un’opera ridondante, che è l’origine della sua solitudine. E davvero, a questo punto, il tempo lascia spazio solo alla disperazione. Mentre il gesto del peccatore può avere la sua redenzione, nell’universo definitivamente senza Dio dell’opera la sanzione sarà non tanto l’eternità ambita, ma l’oblio. Il tempo bracca ciò che non sta in riga, per ometterne la presenza; il tempo, con la rapacità che gli è propria, si oppone al riconoscimento dell’altro da sé in quanto opera. Dimentica, esattamente come premia generosamente chi non lo tormenta. Così Parente pagherà il prezzo della sua tenacia. Senza scampo.
L’autore, paradossalmente, confessa altro. Nutre ancora una qualche speranza di salvarsi dall’oblio, aggrappandosi alla realtà dell’opera. Qui il suo cinismo vira verso l’ingenuità; qui il suo distacco confina pericolosamente con l’auto-consolazione. La parola, ferita dal tempo, chiede al tempo di essere curata. Per sopravvivere nel corso del tempo. La coscienza infelice corre il rischio di inverarsi nell’anima bella.
Resta, per sua fortuna, e per la mia di lettore, il gesto di negazione compiuto, resistenza testarda alla letteratura del tempo. E ciò che resta è già tanto, e ben oltre il resto esistente. L’autore, col suo monologo senza vergogna, ingorga il cammino obbligato, perché vuole che il suo rifiuto sia colto per ciò che è: la verità del suo scrivere oltre il gusto corrente. Verità indicibile.

Quella di Parente è una scrittura che ha l’ambizione di istituire la realtà, rimandando ad un altrove che non è dato vedere, ma che si vorrebbe poter vedere. La parola fissa l’ossessione dell’osceno: niente è impossibile, per la letteratura, se persegue ciò che è fuori dalla scena; se cioè il senso di ciò che appare scopre un senso “altro”, un senso costretto però a congiurare contro la propria immediata sparizione. Scrittura infine come défaillance del senso. Di conseguenza, tentare di identificare con precisione l’opera è un gioco impossibile; strapparne da dentro la verità, o anche solo decifrare ciò che offre in superficie, è come voler ricomporre un ordine che non c’è, violato fin dalle premesse. La coerenza è, davvero, nel piacere del procedimento. È nel carattere abnorme e fastidioso dell’opera stessa. Scrittura pornografica. Senza tempio, senza museo, senza paradiso; senza diritto. Il rovescio di un romanzo. Ora è la parola che non rinuncia al bordello.

Se, all’interno dell’opera, possiamo ritrovare motivi e tendenze che l’autore attinge dalle opere letterarie alte, sul piano tematico è un continuo guardare alla cultura degradata del presente; sarà magari a un livello pre-conscio, o solo taciuto per pudore, ma i punti di contatto con la critica della società dello spettacolo di matrice situazionista sono molti. Parente è debitore all’idea dell’affermazione della vita sociale come apparenza. La televisione è lo spettacolo che rende visibile la negazione della vita; che però essendo più reale del vero, anzi la realtà stessa, esso spettacolo è la vita in quanto tale, l’unica vita possibile. Lo scenario è quello dell’alienazione, come presso i situazionisti; ma l’invadenza del simulacro è tale da suggerire un ribaltamento: dalla società dello spettacolo allo spettacolo della società.
Lo spettacolo è il potere che si guarda. Naike Porcella, Montefeltro, Scarlett, al pari di ogni altro personaggio, sono parti di una totalità ingombrante che determina l’apporto di ognuno a seconda della sua funzionalità. Le biografie sono solo parole; servono a far diventare umano lo spettacolo, che a sua volta ha la sola funzione di mantenersi spacciando se stesso come MERCE. Tale carattere si ravvisa nettamente nel frammento dove si narra della trasmissione Vip Fetish, all’interno della quale sono messi in vendita oggetti appartenuti a star televisive. Il divismo perpetua se stesso come il solo oggetto possibile. Il potere prende le sembianze del feticcio. E la vita è fottuta.
Il fantasma è nudo. Ancora senza nome, però nudo.
Ma di nuovo l’autore segna la sua vicinanza al situazionismo indagando la possibilità dello «scandalo»; l’autore cerca una sua «attitudine pubblica» che possa mettere sotto scacco i cliché sedimentati. Il cazzo duro in bocca alla bambina di sei mesi taglia fuori ogni buonismo, ogni menzogna in nome di una santità della parola, qui davvero creduta impraticabile. Ma anche lo scandalo è un trucco. In nome di una pornografia irraggiungibile, in nome di una parola conficcata come un chiodo nella carne, che l’autore cerca nei bordi del consentito, e in nome, anche, di una parola che scavi oltre ogni limite della decenza, l’opera cerca la sua sublimazione. La violazione è un trampolino. Per il riconoscimento dell’opera in quanto capolavoro.
E qui, pur tenendosi lontano dal tempio, l’autore ambisce ad entrare nello scrigno senza tempo delle opere da ricordare, allontanandosi definitivamente dall’aggressività critica dei situazionisti. Forse Madame Medusa ha ragione: l’autore Parente, a furia di desiderare il successo e la visibilità, verrà soppiantato definitivamente dal personaggio Parente. Un personaggio innocuo.
E il fantasma, che pure viene svelato, non troverà più il suo nome.
Oscenità impossibile?
Questo è il rischio che l’omaggio non può celare. Il rischio di abdicare al proprio desiderio in nome del riconoscimento. Ma il lettore confida nell’astuzia dell’autore. Con l’augurio che, per difendersi dal tempo, continui a ostentare la ricerca di una letteratura che trema di piacere di fronte alla possibilità di nominare, anche solo di sfuggita, ciò che non può essere nominato perché troppo osceno. La parola è questo sgomento.

Andare oltre la superficie è così impopolare.
Ma andare; bisogna. Forzare la lingua, poiché la strada è fuori da ogni mappa. Aprire un’altra strada, per quanto incompiuta. Stare sul cammino. Mescolarsi e distinguersi. E ognuno vedrà, nell’opera, ciò che la differenzia e la rende unica, al di là delle opinioni e delle banalità.
Il gesto più umano è la ribellione. Ora è il finale che sigilla l’opera: il bacio alla sconosciuta. Massimiliano Parente – personaggio o autore qui non importa – incontra per caso, davanti a una vetrina, l’unica donna viva di tutta l’opera, e la bacia. Per un attimo, per un attimo periferico rispetto all’intera opera, riesce a vedere la vera vita, ben diversa da quella imbecille scritta sino a quel momento. Ma anche qui il tempo prende il soppravvento: Parente, a causa del suo gesto, a causa cioè di quel bacio universale e gratuito e straziante, viene arrestato.
Il bacio alla sconosciuta è l’atto sovversivo della letteratura: un gesto necessario perché ormai inutile, perché gratuito, perché d’amore dopo l’impossibilità dell’amore, perché assurdo.
La letteratura «gode di sé». Ma il tempo è tiranno.

Nevio Gàmbula, Aprile 2009

[Le parti rese in corsivo sono tratte dall’opera Contronatura di Massimiliano Parente, pubblicata dall’editore Bompiani nel 2008]

1 commenti a questo articolo

ANARCHY
2009-04-11 12:33:33|di Fiastro

Sull’arcadica pianura
irruppe il dio Zeus
ai piedi del Partenone
la schiera di giapponesi
messe via le nikon
invocò pioggia con k-way arancio tutti uguali
sbiancò il marmo
di colonne doriche a sorreggere foschi presagi
si tesero alle nubi candide le braccia
di un postmoderno Frankenstein
rianimato dall’impalcatura d’acciaio
elettrizzato pulsante nell’aria palpabile
con coraggio o romantica parodia restammo
a sfidare dei mostri moderni e aghi di pioggia
che il viso imperlò confuse lacrime e dolore e rabbia
ululava il vento nei vuoti del tempo
e di fantasmi si incupì l’animo
al cielo ammonitore scagliammo
le nostre Erinni
quali dei quale civiltà
ha partorito barbaria tanto raffinata
milioni di persone ogni giorno
sotto l’orma dei fasti olimpici
che celebrano imprese predatorie abomini inganni e sopraffazione
stretti ad un passato tanto celebrato
che nessuno s’aspettava tornasse così presto
eppure ci parve al di là di ogni ricostruzione
che quelle pietre franate in terra
non avessero altro senso
(nessuna idea ne permeava ancora la materia)
che essere riparo a vipere
dalla epica genealogia
tante troppe già avemmo avuto l’occasione di affrontare
e sapevamo come tornano insidiose
zuppi fino alle ossa restammo
pur senz’altra compagnia dei nostri bastoni
a vigilare che al sole
facessero capolino
quando non si ha alcun siero
a quel che partorisce il ventre freddo delle acropoli
si fa molta attenzione
non fummo eroi
non lo siamo tuttora
e bastonateci pure se questa licantropia rettile
ci fa credere di poterlo diventare
per noi stessi la famiglia la nostra città la patria amata la nazione
qual più puro veleno
eppure di noi dicono bestie
prima del morso


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