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Osnabrück, a.D. 16… ovvero Le streghe

di Francesca Matteoni

Articolo postato mercoledì 16 marzo 2011

di Mariagiorgia Ulbar

Era sempre notte quell’anno
il nero dei boschi o le cantine
dove stavamo nascoste tutte insieme
grigie incenerite
di resti di fuochi attizzati per far luce
e un po’ di caldo. Ci chiamavano
le Streghe, avevamo sedici anni, noi
le facce macchiate di piccoli cancri
di bellezza. I capelli da anni non li tagliavamo
e poi solo da sole li tagliammo
per vendetta e per oltraggio ricevuto
quando venne quell’ultimo anno primavera.
– Dove andate? – ci chiedevano le vecchie
e noi andavamo dietro ai nostri piedi
dove vanno le lumache quando piove
e le volpi quando l’alba mette fame
o dietro a qualche voglia più spinosa
e sconosciuta delle voglie delle figlie di paese.
Avevamo troppi padri a volerci comandare
tanti signori lunghi e ben stirati
o poveracci coi capelli appiccicati
sulla testa, ma tutti lì a seguirci, ad aspettarci
– Vieni qui , ti ho detto, obbedisci,
non lo sai da tua madre che mi devi rispettare?–
E noi ci avvicinavamo lente e calme
per poi arruffarci e soffiare come i gatti
e mordere le mani
a tutti quelli lì, perché lo sapevamo
che quelle carezze erano peggio degli schiaffi.
Che se i padri erano troppi, le madri
che ci erano rimaste non bastavano
tutte appese alle finestre insieme ai pettini
alle collane, ai nastri, cantando
mentre noi sussurravamo.
In mezzo ai campi all’ora del tramonto
persino un poco dopo, quando i lumi danno luce
guardavamo in direzione delle case,
mai una volta ci sembravano
più calde di quell’erba sotto i piedi
del buio sui tronchi vellutati
delle storie a memoria sempre uguali
che ci uscivano dalle voci che mutavano.
Francesca, ti ricordi?
La discesa di muschio e l’inizio poi
dell’uliveto, tutto unito
prima che facessero il muretto per dividerlo.
Francesca, ti ricordi?
C’era nell’angolo la casa di legno tutta storta
del maiale e il vecchio casolare,
con la quercia alla sua destra,
la casa bella con il ferro delle gabbie
dei conigli e delle oche.
E la siepe sulla strada? Tutta verde nera scura
e in mezzo i fiori rossi dei serpenti.
I serpenti li abbiamo catturati
appostandoci per ore all’imbocco delle tane
e lasciati dentro i letti degli altri nelle case.
Ah ah ah, sentirli urlare, che piacere
nella notte e accendere le luci
e le bisce nere scappare spaventate
dalle fessure sottili delle porte
senza armi per uccidere, loro
eppure con sembianze crudeli d’omicide
attaccate addosso
da credenze e dicerie perpetuate.
Insieme ai cani in mezzo all’erba secca d’oro
ammontagnata, fin nei buchi
a dar la caccia alle galline che covavano
per levarle da quei sicuri nidi
e rubare o rompere le uova
succhiarne la potenza
o farci lucidi i capelli con gli albumi,
lasciavamo i gusci sparsi frantumati
la nostra firma divertita
per il villaggio i più cattivi presagi.
Cammina cammina, dentro il bosco
il nostro muschio morbido sopra i tronchi
aggrapparci e abbracciarli per sfregarci
la pelle delle pance e delle cosce
fredde e umide da scaldare poi di notte
dentro la radura strette al fuoco
acceso per cuocere nella cenere
le patate bianche saporite.
Una notte ombre nere sono venute
fino al fuoco
che ci segnalava come un faro;
gli uomini con le braccia a croce e i pali in mezzo
– Piccole luride, che mangiate?
Che sono quelle pelli bruciacchiate?
Quelle cose tonde sono piccole teste
già staccate? –
E ci presero, ci spensero
gli occhi con i pali,
lontano dalle erbe e dai sospiri
compagni delle bestie
verso le mura del paese
e dentro e dentro il fiume gelido
ogni metro sott’acqua una domanda
fino al penultimo respiro
e poi su per l’illusione della vita
e giù di nuovo
e l’ultimo soffio del nostro alito
si sarebbe perso presto
in un fumo tutto nero.
Voi chi siete?
Ci chiamano le Streghe.
Parlate e vi daremo un posto
anche a voi sotto la terra sacra del paese.
Cavateci i denti, ma noi non parleremo
con voi e poi mai più comunque,
strappateci la lingua e poi mangiatela
e insieme con essa le parole.
A noi piace solo il bosco e tutto il fuori
lontane dal potere degli specchi e delle case
torneremo sopra i campi, laggiù
scendendo in cenere mescolate con la pioggia
che è figlia solo dell‘acqua e del calore.

Mariagiorgia Ulbar è nata a Teramo nel 1981. Ha studiato germanistica e anglistica all’università e insegna lingua straniera nelle scuole superiori. Scrive poesia, collabora con la rivista di letteratura per ragazzi Hamelin, per cui cura, insieme ad altri, la sezione di poesia. Traduce dal tedesco e dall’inglese per passione letterari e fascinazione per le lingue, la diversità, il ritmo, il suono.

1 commenti a questo articolo

Osnabrück, a.D. 16… ovvero Le streghe
2011-04-01 11:02:21|di Cristiano Daniele

Mi sono sempre domandato se la poesia, quella vera, dovesse essere più terrena o più divina. Dopo tanto riflettere ho trovato la mia conclusione. L’intuizione del divino (visto che la scrive un uomo) e poi le mani e le vesti sporche di terra. Questa poesia è esattamente così. Sporca, fisica, terrena, terrosa, terribile. Pesante come quando ti si riempiono le tasche di pietre. Eppure così leggera.


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