Absolute Poetry 2.0
Collective Multimedia e-Zine
Coordinamento: Luigi Nacci & Lello Voce
Redatta da:
Luca Baldoni, Valerio Cuccaroni, Vincenzo Frungillo, Enzo Mansueto, Francesca Matteoni, Renata Morresi, Gianmaria Nerli, Fabio Orecchini, Alessandro Raveggi, Lidia Riviello, Federico Scaramuccia, Marco Simonelli, Sparajurij, Francesco Terzago, Italo Testa, Maria Valente.
Reagire alla marginalizzazione della letteratura
intervista a Paolo Febbraro
***
Luigi Nacci (LN): Paolo Febbraro, classe 1965, ha esordito in poesia con la raccolta Disse la voce, compresa nel “Quarto quaderno italiano” della collana di poesia contemporanea diretta da Franco Buffoni. Vorrei chiederti come giudichi, a 14 anni di distanza, il tuo esordio; vorrei anche chiederti cosa pensi della collana in questione (che, stando a quanto si vocifera nell’ambiente della poesia, chiuderà con il decimo volume).
Paolo Febbraro (PF): Ho scritto la prima poesia che ritengo importante nel gennaio 1992, all’età di ventisette anni. Il perché di questa lenta maturazione potrei spiegarlo a me stesso e agli altri solo grazie a un lungo racconto. In ogni caso, quel gennaio ’92 aprì un’intera stagione: già a fine anno avevo un cospicuo numero di poesie fra cui scegliere per poter allestire una breve raccolta. Fu Claudio Damiani, che conoscevo dal tempo in cui pubblicò, con Gabriella Sica, la mia prima poesia su «Prato pagano», a suggerirmi di mandare le poesie a Franco Buffoni, che selezionava giovani poeti per i suoi Quaderni, all’epoca editi da Guerini e Associati. Buffoni mi rispose con entusiasmo, anche se invitandomi ad espungere dei componimenti ancora irrisolti. Scoprii che era uno scrittore laico, trovatosi assai ben disposto nei confronti della mia poesia teologica ma del tutto irreligiosa. Mi comunicò che avrebbe escluso un poeta già precedentemente inserito nel Quarto quaderno per far posto ai miei testi. Il mio esordio in volume, così, avvenne con una non voluta sopraffazione. Oggi, diverse di quelle poesie mi sembrano troppo facili: o meglio, ansiose di arrivare al punto, di riscuotere il frutto della puntata. Le cabalette dell’ultimo Caproni risuonavano distintamente, che non è un male in assoluto, ma a volte non sostavano abbastanza dentro di me, o non si contaminavano abbastanza con una diversa memoria, per essere vere e forti poesie. Tuttavia, Disse la voce ha fornito al successivo Il secondo fine, del 1999, un nucleo poetico addirittura decisivo.
Quanto ai Quaderni buffoniani, non è difficile ammettere (per chiunque, anche per chi non vi è stato compreso) che buona parte della poesia dei trenta-cinquantenni di oggi è nata lì. Credo che col passare degli anni Buffoni abbia cercato fin troppo di allargare le maglie, di intercettare tutte le tendenze. Forse in lui, di formazione anceschiana, è riemerso il tentativo di inventariare delle poetiche. Ma in generale, è stato memorabile e generoso, da parte sua, rompere il silenzio generale dei primi anni ’90, e restituire alle generazioni successive ciò che i quaderni Guanda avevano dato alla propria.
LN: Giorgio Manacorda, – poeta e critico con cui tra l’altro collabori nella curatela degli Annuari di poesia editi da Castelvecchi – scrive (La poesia italiana oggi. Un’antologia critica, Castelvecchi, 2004): «a me sembra che Febbraro sia il primo poeta delle nuove generazioni che vada oltre il moderno, e ovviamente, il Postmoderno. Egli, infatti, torna ai grandi problemi non dando niente per scontato e lo fa in versi, cioè con lo strumento della creatività pura. E poi, con la grazia del ragionamento poetico, si colloca nettamente al di là del dibattito del secolo – ma senza cancellarlo, né il secolo, né il dibattito […]. Se dobbiamo parlare di ascendenze, non possiamo non nominare Pasolini e Caproni, poeti ai quali, non per caso, Febbraro dedica due poesie, ma più che Pasolini, il suo vero nume tutelare è Caproni […]. La lingua di questo giovane poeta è limpida e austera, non concede nulla ai facili giochi, agli aloni lirici, alle ambiguità costruite, alle analogie eccessive, né cede al fascino perverso dei rifacimenti o delle citazioni». Come ti ritrovi in questo ritratto? I poeti citati da Manacorda sono effettivamente dei modelli per te, oppure ne hai degli altri, decisivi, con i quali hai contratto “debiti” più pesanti?
PF: Credo che Manacorda, affermando che la mia poesia va oltre il moderno e il postmoderno, avesse avvertito in essa un fatto: Febbraro affronta grandi temi, anzi parte dal maggiore di tutti, Dio, come se lo si facesse per la prima volta. Febbraro, infatti, è nato e a lungo è rimasto un poeta ingenuo, per nulla imbevuto di letteratura, di letture non amplissime ma fortemente elettive. Quando Manacorda scrive «la lingua di questo giovane poeta è limpida e austera», forse non si rende conto che limpidezza e austerità sono la spiegazione, la mera appendice della giovinezza: un che di disarmato e puntiglioso, di spavaldo e indigente. Chi infatti complica, interpola, cita, allude, mèscida, parodizza ecc., è uno che ha già letto tutto e gesticola per trovare il proprio spazio, magari facendo poesia (o illudendosi di farla) col solo affermare la sua impossibilità, o il suo superamento. Credo di essere diventato poeta quando ho accertato un fatto: che la nostra memoria funziona nella riattivazione involontaria (o almeno, coscientemente involontaria) di ciò che abbiamo dimenticato. Possiamo tranquillamente dimenticare e perdere ciò che abbiamo vissuto, o le meraviglie che abbiamo incontrato nella lettura, perché tanto esse torneranno da sole quando, ed esattamente quando, ci faranno più comodo per creare noi stessi. Per questo, se mi “vengono” dei versi belli ed efficaci, pieni e sonori, in cui si risente l’eco di qualche noto o grande poeta, io non nascondo affatto l’accaduto, né lo esibisco parodicamente come arte consumata, ma me lo prendo e basta come eco mia personale di una bellezza disponibile e viva. Così, una volta scontato l’iniziale “caproneggiare” di qualche cabaletta d’esordio, io non rifaccio mai un poeta, ma nel caso me ne servo per lavorare in me stesso la memoria involontaria, per farne emergere una forma.
Vedi bene che in ciò il riuso postmoderno non c’entra nulla.
LN: Restiamo ai classici. Tempo fa ti ho sottoposto un questionario su Umberto Saba, cogliendo l’occasione di ricordarlo nel cinquantenario della sua scomparsa. Alla prima domanda, “ritieni che Umberto Saba possa essere considerato uno dei poeti maggiori del Novecento italiano?”, hai risposto così: «Saba è con Montale e Penna il più grande poeta del Novecento. È un poeta grandiosamente tradizionale proprio perché estraneo ai tradizionalismi sfiniti e citazionistici che, per stanchezza e moderna onniscienza, tendono sempre verso manierismi o avanguardismi. È un poeta classico perché non ha alcuna preoccupazione di sembrarlo». Che cos’è la tradizione, oggi, nella poesia italiana di inizio millennio, e quali autori la interpretano con più consapevolezza e originalità? A proposito di tradizione, hai appena pubblicato La tradizione di Palazzeschi (Gaffi Editore, 2007), mi pare che il tema del tradere ti stia particolarmente a cuore…
PF: Tradizione è parola ricca, su cui rifletto da tempo. Alla base resta la riflessione di Eliot secondo la quale ogni grande scrittore è già in sé una tradizione, perché con le sue opere riattiva, risveglia o rinviene ciò che solo con lui scopriamo ancora attivo, sveglio e rinvenibile. Ad esempio, si ha un bel dire che il poema cavalleresco è una tradizione morta: certo non si può “continuare” Boiardo come l’ha continuato Ariosto, ma oggi o domani si potrà essere ariosteschi in modi profondi e diversi da come lo si è stati in passato. Altra materia di pensiero me l’ha fornita la studiosa Daniela Marcheschi, la quale, nella sua formazione dionisottiana, ha rifiutato il modello storiografico ascendente o discendente di De Sanctis, quello di una Grande Tradizione che si depaupera col tempo e se è il caso può risorgere, e lo ha sostituito con un modello a più tradizioni, a volte parallele, a volte intersecate, che spesso coincidono con la storia dei singoli generi letterari, e spesso la travalicano. Non è così che fanno, concretamente, gli scrittori? Fra tutti i libri che leggiamo, quelli che diventano un nostro alfabeto sono quelli che costituiscono la nostra tradizione. Non solo: leggere non è un fatto idilliaco, una passeggiata indefinita in attesa che arrivi, per caso, la folgorazione: è un impegno di chiarificazione progressiva, con momenti di opacità e addirittura di traviamento. Arriva un età, però, in cui uno scrittore non deve più sbagliare voce, e in cui può e deve permettersi di ignorare delle opere che potrebbero inquinare la sua vena, invece che arricchirla, o farla cadere in buone tentazioni. Un giorno di molti anni fa, ad esempio, capii che non avrei mai letto Il piacere di D’Annunzio: da allora, quel libro è accuratamente custodito dentro di me come rifiutato, anche moralmente. A trent’anni, quanti ne avevo d’età, l’orizzonte delle letture ancora da fare, o di quelle possibili, è altamente indefinito: deciderne preventivamente alcunché, e sia pure un’esclusione, è uno di quelle sovrane arroganze, solo in parte spiegabili, di cui si nutre una tradizione personale.
Ora, per rispondere alla tua domanda, non so bene cosa sia la tradizione per i miei colleghi poeti. So solo che, se ancora credono nell’esistenza di una grande, oppressiva Tradizione Unica, piena di geni inavvicinabili e intimidatori, ma anche già passati per le armi della parodia e della moderna “impossibilità”, allora la loro vita è piena di un’ansia inane ma esosa: perché un vasto insieme di tradizioni è una grande risorsa, e un grande richiamo, e non certo una preoccupazione. E se invece i poeti di oggi dichiarano una loro tradizione (alcuni dicono “discendenza”), allora se la devono meritare, perché – ripeto – una tradizione è un impegno e una responsabilità. Anche un tradimento, insomma, dev’essere all’altezza.
LN: Nel 1999 hai pubblicato Il secondo fine (Marcos y Marcos). Vorrei farti una domanda anomala, se permetti, ma prima ho bisogno di un cappello introduttivo. Scrivi nell’Editoriale di Poesia 2005. Annuario (a cura di Giorgio Manacorda, Castelvecchi, 2005): «I poeti istigano i critici, li indirizzano, soprattutto con le citazioni in esergo che scelgono – rigorosamente post factum – con parsimoniosa intensità, come fossero versi propri di assoluto e qualificante rilievo». Ne Il secondo fine ogni sezione (tutte tranne la seconda, Aesthetica in nugae) è aperta da un titolo e da un esergo, rispettivamente di: Borges, Feyerabend, Sereni, Montale, Tarozzi, Loi. Immagino, visto che ciò che hai scritto e che ho riportato, che le citazioni siano state concepite ante factum, dunque: perché (proprio) quei sei, e in che modo le loro parole hanno indirizzato la tua opera? Mi colpisce inoltre che l’unica donna sia Bianca Tarozzi, e non tanto per la sua poesia, che a tratti potrebbe ricordare, in special modo nell’uso della rima e nella chiarezza del racconto, la poesia di Saba, e anche – concedimi l’accostamento – la tua poesia; mi colpisce piuttosto l’assenza di altre poetesse, e ciò mi porta a chiederti: quali sono le poetesse che leggi con più attenzione?
PF: Ne Il secondo fine, le citazioni in esergo sono state scelte, come ho ammesso nel brano critico che hai citato, rigorosamente post factum. Appartengono al momento della composizione delle poesie in libro, e non a quello della loro stesura. Sono un commento, una vicinanza ritrovata, un’ispirazione à rebours. Per questo dicevo che le citazioni costituiscono il percorso scelto dal poeta per indirizzare il critico nella direzione voluta: un tentativo di preordinarne la lettura, un tranello fatto di verità parziali. Non ho poi nessun interesse specifico per le poetesse. E trovo grottesche le antologie di donne, di gay, o quant’altro. Ignoro protervamente le minoranze vere o autocostituitesi, anche perché ignoro del pari le maggioranze. Così come detesto gli attenti bilanciamenti politicamente corretti, che si traducono nel conteggio dei “posti riservati”, in parlamento, alle Poste o in poesia. Saffo ed Emily Dickinson andrebbero messe in un’antologia di poesia femminile? E di fronte alla Szymborska, mi sento di apprezzare (spesso) o meno (più di una volta) senza pensare che si tratta di una donna. Non c’è dubbio che essere donna implichi differenze in partenza: ma quelle differenze saranno rilevanti, per me, solo se mi sorprenderanno e mi conquisteranno nella poesia, o nel ragionamento. A rigore, non nego a nessun uomo il potermi stupire e contraddire come in teoria dovrebbe fare una donna. Insomma, ti rispondo che leggo le poetesse quando mi piacciono, come Fernanda Romagnoli o Biancamaria Frabotta. Altrimenti le trascuro, come con i maschi, senza nessun senso di colpa. Della Tarozzi, poi, mi è piaciuta La buranella, e per me scegliere un esergo vuol dire scegliere determinati versi, senza giudizi complessivi.
LN: Torniamo agli Annuari di Castelvecchi. Come tutte le operazioni in presa diretta possono essere fortemente criticate, ma un merito che vale la pena di essere sottolineato ce l’ha senza ombra di dubbio: quello di assumersi la responsabilità e il rischio di affermare fuori dai denti, esercitando un severo e provocatorio sguardo critico militante – oggi raro, a mio giudizio, anche nei critici più giovani (che sulla carta, almeno lì, dovrebbero essere meno legati a lobby universitarie o editoriali…). Nell’Editoriale sopradetto tracci una panoramica delle antologie di poesia contemporanea uscite negli scorsi anni, dalla Cucchi-Giovanardi, alla già menzionata antologia di Manacorda. Come giudichi la furia antologizzante che ci sta investendo?
PF: Un’antologia è un atto di potere, ed è anche un divertimento,. Ma soprattutto, data la caduta delle categorie interpretative avvenuta negli ultimi quarant’anni, e la conseguente fuga della critica militante e accademica dalla poesia, l’antologia è diventata la zattera dove mettere coloro che si pensa meritino di scampare al naufragio. Il problema è che ci sono troppe zattere, e allora ci risiamo. Alla fine uno spera di avere delle qualità, e che queste si imporranno da sé, anche oltre le proprie intenzioni. Questo non toglie che fare la critica militante delle antologie sia necessario, per capire quali siano le operazioni davvero motivate, le panoramiche di valore, e non le recinzioni del proprio podere.
LN: Alfonso Berardinelli ha scritto, nell’introduzione a L’eroe che pensa. Disavventure dell’impegno (Einaudi, 1997), che «gli intellettuali sembrano oggi particolarmente attratti verso un’idea estetica di se stessi. Tendono a presentarsi, anche quando così non dovrebbe essere, come imprevedibili e inafferrabili artisti, le cui opere non offrono niente che sia razionalmente e pubblicamente vincolante. L’impotenza pratica e la fuga dall’etica professionale in Italia vestono i panni della sofisticazione estetica e della raffinatezza». Che cosa significa per te essere un intellettuale e critico militante (voglio ricordare che hai curato nel 2001 per le Edizioni Poligrafico dello Stato un’antologia di Critica militante)? Ci sono dei critici che stimi, sia nelle vecchie che nelle nuove generazioni? Se sì, come ti relazioni a loro?
PF: Da qualche secolo a questa parte, le arti sono diventate i modi possibili di un’espressione di sé. Per millenni, invece, sono state il momento individuale di un saper fare, e dunque un’utilità pubblica, riconoscibile. La poesia, in particolare, passando da arte a modo espressivo, ha voluto fare i conti con la verità, l’autenticità di un’esperienza singolare: è diventata rappresentazione del minimo quotidiano, non vasta memoria ma piccolo ricordo, o viceversa si è smarcata nell’iperpoesia, nella sofisticazione estetica di cui parla Berardinelli. Essere critico militante, per me, corrisponde al tentativo di capire tutto ciò, di reagire alla marginalizzazione della letteratura, soprattutto se procurata da coloro che, per debolezza, hanno da guadagnare da una situazione collettiva che quando va bene è improntata alla solipsistica malinconia, condita di qualche residuo atteggiamento oracolare. E poi, anche rispetto a queste teorie generali, la critica militante offre la possibilità di combattere la pigrizia dello scetticismo, e di confrontarsi non con i mostri epocali (poeta postumo, morte dell’arte, ecc.), ma con le opere concrete, in un rispetto preventivo al quale a volte segue il legittimo disgusto, a volte la piacevole sorpresa.
Infine, ti faccio un ritratto del critico militante che stimo. Io leggo pochissima narrativa contemporanea, per disinteresse e direi fatalismo sul presente. Il mondo della narrativa d’oggi mi sembra un mondo piccolo, con piccoli problemi e piccole soluzioni: quelli italiani di sempre. Ecco: il critico militante che stimo è quello dal quale accetterei un consiglio di lettura riguardante un romanzo appena uscito.
LN: Nel 2003 hai pubblicato Il diario di Kaspar Hauser. E’ un titolo forte, che immediatamente rimanda alla mitica figura dell’ingenuo fanciullo d’Europa, e che già ha suggestionato i poeti, basti citare Verlaine, Trakl, o Arp. Perché hai scelto quel personaggio-simbolo?
PF: Mi affascinava la figura dell’idiota, la sua perfezione zoppicante, la dignità della sua contraddizione mite e invincibile. L’idea nacque nella tarda primavera del 1995, alcuni anni dopo aver visto il celebre film di Werner Herzog. Da allora ho cercato di non venire a conoscenza di nulla che avesse a che fare con il vero Kaspar Hauser, né con quanto fosse stato scritto in precedenza. Risultato: ancora oggi sono un assoluto ignorante sulla letteratura al riguardo. Il diario di Kaspar Hauser rimane per me un’operetta morale che traveste la solitudine della mia lunga adolescenza. È anche altro, lo so, ma quell’altro l’ho fatto apposta.
LN: Hai pubblicato testi su riviste come “Prato pagano”, “Trame”, “Lengua”, “Versodove”, “Nuovi Argomenti”. Secondo te, alla luce anche del fenomeno poesia-in-web (pensiamo a quanti blog e siti poetici, e per ultimi aggregatori di blog, gestiti da singoli o da comunità, sono sorti negli ultimi 5 anni), è mutato il rapporto tra poeta e rivista? E’ importante per un poeta essere pubblicato da “Poesia”, o “Atelier”, o “Anterem”, o “La Mosca”, etc., più che da “Nazione Indiana”, o “Absolute Poetry”, o “La poesia e lo spirito”, o “Dissidenze”, o “Liberinversi”, etc.?
PF: Se ricevo proposte di collaborazione, decido in base alla stima che ho delle persone, a quanto so di ciò che hanno fatto in precedenza, o anche in base all’ispirazione del momento: non riesco a essere un oculato gestore delle mie possibili “fortune”! Oggi si moltiplicano le iniziative sul web, ma il discorso non cambia. Per molto tempo, ho pubblicato pochissimo, oggi forse – soprattutto come critico, anche come critico di me stesso, nelle interviste come questa – capita più spesso. Sulla qualità, posso dire che Nazione Indiana è superiore a molte riviste cartacee. E il web ha il vantaggio di essere visibile in tutto il mondo. Tuttavia, non sono un entusiasta, bensì un possibilista, laico e aperto. E il passaggio attraverso il libro cartaceo è, per uno scrittore, decisivo e ineliminabile. Spero che in futuro i libri siano riservati a chi ha forza letteraria e determinazione superiori alla media, in modo da risparmiare la carta e dedicarla a chi davvero ne pretende la durata.
LN: Due domande per chiudere, a Febbraro critico: mi faresti i nomi di almeno tre poeti contemporanei di cui si potrebbe fare tranquillamente a meno? Quali sono invece i poeti giovani sui quali scommetteresti e perché?
PF: Scommetto da anni, sull’Annuario. I miei nomi sono Edoardo Zuccato, Paolo Maccari, Matteo Marchesini. Ma anche Andrea Inglese, Andrea Temporelli, Roberto Deidier, Maurizio Marotta, molto diversi fra loro. Le poetesse? Non mi viene in mente nessun nome: fanno una poesia troppo femminile (monotematica, sul corpo, sull’essere donna), mentre i maschi non fanno una poesia troppo maschile. Certo, da una Rosaria Lo Russo c’è da aspettarsi ancora molto, appena sarà più tranquilla nei riguardi dei “padri” e delle “madri”, la sua tradizione. Fra i giovanissimi, vorrei non essermi sbagliato recensendo positivamente l’esordio di Federico Italiano. Anche tu, Luigi Nacci, mi sembri molto promettente.
In Italia, si potrebbe fare a meno dei poeti mediocri, che sanno di esserlo, ma non vi si rassegnano. Chi sono? La qualità è oggi purtroppo inversamente proporzionale al potere editoriale e mediatico.
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(l’intervista è apparsa sul numero 104 di "Fucine Mute")
22 commenti a questo articolo
PAOLO FEBBRARO: Reagire alla marginalizzazione della letteratura
2008-02-27 19:35:41|
Io quoto Genna.
A.L.
PAOLO FEBBRARO: Reagire alla marginalizzazione della letteratura
2008-02-26 22:15:20|di Paolo Febbraro
Vi ringrazio per i commenti e provo a rispondere.
I versi che cita Christian appartengono ad una poesia che ho poi espunto dal libro ormai prossimo "Il bene materiale". Mi sono sembrati troppo dichiarativi, anche se non ne rinnego il senso possibile. Che credo essere proprio quello visto da Christian: la vera alternativa alla religione, e al suo interessato, fintamente sublimato materialismo, è la poesia, intesa come facoltà creativa deviante e deviatrice, ma proprio per questo arcaicamente radicata in noi. Credo anzi (ma il discorso sarebbe lungo) che la religione sia un impigrimento della facoltà poetica, una sua standardizzazione rituale. Pensiamo a ciò che diventano i miti greci, pieni di varianti geografiche e di versioni diversamente plausibili, se trasformati in culto convenzionale, e poi recuperati solo come segnale classicistico, con la sua ritualità levigata.
A VIOLA: sulle poetesse sono stato colpevolmente sbrigativo, o addirittura brusco. Ma confermo di non amare affatto le riserve indiane, le assunzioni di tono o i ritagli di esperienza. Una bella poesia scritta da una donna sarà femminile fatalmente, come una mia sarà fatalmente discendente da un maschio italiano 43-enne. Altra cosa, però, è esibire questa fatalità come obiettivo, per polemica o seduzione, o per occupare l’angolo concesso alla minoranza che finalmente si esprime, molto spesso sovraesponendosi in caratteristiche "tipiche". Quanto ai nomi che Viola fa, apprezzo e ascolto (senza giungere tuttavia all’ammirazione) la poesia di Cavalli, Annino e Lamarque. Più vicina ancora sento quella della Frabotta. Ma mi sembra che nella parte di intervista in cui ammettevo di non avere in mente dei nomi femminili si stesse parlando di autrici giovani, diciamo dalla mia età in giù.
Infine, sul pronunciamento di Giuseppe Genna, riportato da Luisenza: Genna ed io siamo scrittori molto diversi. La differenza più grande è questa: Genna - con la straordinaria acutezza critica che traspare da ogni sua riga - legge i miei Annuari, mentre io non leggo i romanzi di Genna.
PAOLO FEBBRARO: Reagire alla marginalizzazione della letteratura
2008-02-26 20:12:12|di lorenzo carlucci
si potrebbe forse rilevare una certa ingenuità nel sostenere che i "maschi" non fanno una poesia troppo "maschile". gli attributi della "mascolinità" sono magari un poco più sfuggenti di quelli "femminili", ma potrebbero rivelarsi non meno ubiqui - per quanto forse meno evidenti (anche per ovvie ragioni di storia sociale etc.) - ad una analisi più attenta, al punto tale da render la poesia dei "maschi" non meno "monotematica". forse. aspettiamo la poesia transgender. e la poesia ermafrodita, con ansia di donnetta.
lorenzo
PAOLO FEBBRARO: Reagire alla marginalizzazione della letteratura
2008-02-26 18:36:58|
Yes, sirconcordo, almeno lui dice quanto pensano in tanti. Ma appiattire la scrittura di tante autrici a una tendenza squatter di unghie acuminate, forbici e gorgo materico forse sembrerebbe un pò riduttivo ad Annino, Cavalli, Insana,Lamarque, Merini, Niccolai,Pizzi, Valduga etc, per citare alla rinfusa alcune viventi. E anche a restare nel *corpo* della poesia, ahimè non è più tempo di "occhi da gazzella" e "labbra di melograno", bolo poetico rimasticato dai maschi per millenni...un caro saluto Lorenzo, Viola
PAOLO FEBBRARO: Reagire alla marginalizzazione della letteratura
2008-02-25 22:49:58|di lorenzo
almeno lo dice!
lorenzo
PAOLO FEBBRARO: Reagire alla marginalizzazione della letteratura
2008-02-25 21:55:03|
"Le poetesse? Non mi viene in mente nessun nome: fanno una poesia troppo femminile"..ah, beh, se lo dice Febbraro, Viola
PAOLO FEBBRARO: Reagire alla marginalizzazione della letteratura
2008-02-25 18:03:17|di luisenza
http://www.miserabili.com/2005/05/1...
Qualunque operatore dell’editoria e delle patrie lettere attende infatti con smodata ansia l’uscita dell’annuario poetico di Manacorda perché è la più esilarante carrellata di avantpop involontario, una specie di Manuale per le giovani marmotte ad uso di Ciccio di Nonna Papera, un resumé velleitaristico che segnala quanto viva sia, a Roma, non la società delle terrazze, bensì dei terrazzini. Li vediamo su un terrazzino, questi due figuri che figurano curatori di detto annuario, e cioè lo stesso Manacorda e tale Paolo Febbraro: se la fanno, se la dicono, tirano i bussolotti, giochicchiano con lo stucco, telefonano in Mondadori e intimano di dare loro la direzione dello Specchio, rimbalzano, chiamano il disperso editore Castelvecchi e je dicono: “Ahò!, manco quest’anno ci fanno dirige ‘o Specchio, famo ancora er annuario”, e Castelvecchi si ritrova intatto il solito tormentone, quest’anno addolcito dai finanziamenti dell’Università della Tuscia, che sarebbe il prestigioso posto in cui Manacorda insegna.
..(..). E’ in effetti un grande slam della sottocultura che compiamo nell’esegesi di questo imperdibile manabile. Fatto come manabile nel senso che una mano lava l’altra (dopo avere fatto chissà che cosa), esso libercolo ha la comica pretesa di ergersi a giudizio sommario, ma definitivo, della poesia che si fa in Italia. In realtà altro non è che uno sfogo bilioso, e divertentemente spruzzante un po’ ovunque, da parte di due poeti di non riconosciuto valore o di riconosciuto non valore. Essi ci propinano, usualmente, un cattedratico riassunto di quanto a loro fa schifo il fatto che i poeti migliori di Italia siano tali. Potremmo definirli un quarto stato della poesia, ma sostituendo alla penuria economica e politica un doveroso richiamo alle frustrazioni del narcisismo a cui sfugge ogni prova di realtà.
Chi sono, dunque, i gemelliruggeri che compitano annualmente per Castelvecchi? Sono essi stessi a comunicarcelo, addirittura a pagina 2 del manabile. Giorgio Manacorda rivendica la pubblicazione del libro poetico Tracce, di cui si sono perse le. I suoi editori sono Empirìa, ES, Marcos y Marcos: che non è come dire Einaudi e Mondadori. Più giovane il sodale, Febbraro Paolo, classe 1965, che informa di avere pubblicato versi sul Corriere della sera (!), sulla defunta Lengua di Gianni D’Elia (che adesso sfotte) e una “vasta antologia” della critica militante presso il Poligrafico di Stato: gli manca dunque un esteso florilegio della narrativa presso la Zecca. I suoi editori sono Guerini e Associati, Marcos y Marcos e L’Obliquo: che non è come dire Einaudi e Mondadori.
Forti di tali credenziali e del finanziamento dell’Università della Tuscia, i due staminali critici ci dilettano con, immaginate un po’, tirate abnormi e iperboli avviticciate contro Einaudi e Mondadori. Aprire l’Annuario Castelvecchi è come essere dei vaticinatori etruschi: si scrutano le viscere, ed è immaginabile di chi.
Prendiamo per esempio il primo passo, ricco di una competenza poetica e socioeditoriale da lasciare storditi. Orbene il Febbraro inizia subito il suo editoriale (un elzeviro di 49 pagine) rimbrottando Maurizio Cucchi e Stefano Giovanardi per avere pubblicato una ormai celebre e assai venduta antologia sui Poeti italiani del secondo Novecento. Ah!, che mancanza di moralità!, ci ammonisce il competente Febbraro: nel ’78 Mengaldo antologizzava da Mondadori il direttore editoriale Sereni, che era almeno un maestro riconosciuto! Invece Riccardi, che ricopre oggi la stessa carica di Sereni, non lo è! E via veleno su Cucchi e su Giovanardi e sugli antologizzati, con la furia del paria lasciato a bussare fuori del convento con ’sta pioggia e con ’sto vento. Febbraro utilizza categorie critiche devastanti: meno male che ce le fornisce, non disponevamo più di un canone, adesso sì, abbiamo un Harold Bloom in casa e non lo sapevamo! Dovevamo leggergi i libri del Poligrafico di Stato! Con dovizia di cortesia romana, Febbraro esclude Giovanardi dagli insulti con una contorsione bizantina che lancerà il nostro giovane Bloom sulle pagine di Repubblica: “Giovanardi è un critico non ricattato dalla propria poesia o poetica personale, ha una formazione accademica e dunque più responsabilmente storico-letteraria. […] Giovanardi è stato il miglior compagno possibile per Cucchi, impegnato a prolungare la sua antologia aziendale fino a poter canonizzare i pazienti adepti mondadoriani”. Un’accusa davvero infame e priva di fondamento. A prescindere dal fatto che un accademico dell’Università della Tuscia non ha affatto più competenze storico-letterarie di una delle maggiori personalità poetiche contemporanee (quale Cucchi è e, nonostante quanto dica Febbraro, lo è riconosciutamente), viene da ridere al pensiero di cosa farebbero Febbraro & Manacorda se messi a dirigere lo Specchio. Sia chiaro che i nomi inseriti da Cucchi e Giovanardi nell’antologia in versione economica, che vanno da Rondoni (non pubblica per Mondadori) a Fiori (non Mondadori), da Marcoaldi (non Mondadori) ad Anedda (non Mondadori) a Riccardi (che pubblica per Garzanti, proprio come Sereni ai tempi mengaldiani), segnalano tra gli autori di Segrate quella che a detta di tutti è comunque la migliore poesia della generazione dei cinquanta/quarantenni: e cioè Dal Bianco e Benedetti. Chi ci deve mettere, uno, in un’antologia sulla poesia di oggi? Paolo Febbraro? Giorgio Manacorda?
Sorge un dubbio, però. Come mai Giorgio Manacorda non firma l’editoriale e lascia al giovane addetto la pratica delle cinquanta pagine iniziali di questo imperdibile annuario? Il motivo lo si scopre a pagina 10. Si è faticato, è vero, ad arrivare fin lì, ma in compagnia di molti poeti e critici e narratori che vivono con noi semel in anno questo hellzapoppin è stato comunque divertente. Si è certo dovuto attraversare qualche palude infettata, fare la gimkana tra apodissi da Villa Turro, la più notevole delle quali è questa: “Cucchi e Riccardi non si offenderanno, spero, se affermo chiaramente ciò che tutta Italia ammette silenziosamente con naturalezza, ovvero che il loro peso editoriale agisce in modo distorsivo sulla considerazione delle loro poetiche” – tutta Italia? Ma chi frequenta nel tempo libero Febbraro, la Doxa? Cioè: stiamo parlando di Maurizio Cucchi, uno che una poetica ce l’ha dal 1976 quando sollevò attenzioni da parte di Pasolini Raboni Porta (per dire solo i primi che accolsero entusiasticamente Il disperso), quando Febbraro al limite mangiava il Ciaocrem – e parliamo di Antonio Riccardi, vincitore del Bagutta opera prima, quando faceva l’editor junior agli Oscar. E Febbraro? E’ ben vero che tutta Italia ammette silenziosamente e con naturalezza che il suo peso editoriale non agisce in modo distorsivo sull’inesistente considerazione della sua opera poetica. Siamo ai vertici dell’onestà intellettuale, del buon gusto, della molto etica sottrazione al nepotismo? Lo si giudichi da quanto accade venti righe dopo l’apodissi à la Tino Scotti di Febbraro: inizia un nuovo capitoletto dal titolo “L’altra antologia”. O cazzo!, si pensa: c’è un’alternativa! Un peso massimo della critica quest’anno si è schierato contro Cucchi e Giovanardi? E chi è questa speranza dell’acume esegetico? Lo avete già indovinato? No? Allora ve lo dico io: è Manacorda. Qua ci cascherebbero le braccia, se non conoscessimo da anni lo stile dei curatori dell’annuario poetico Castelvecchi: anziché farci cascare le braccia, le abbiamo mosse per un compulsivo applauso. Neanche Biscardi è capace di tanto! Sentite Febbraro, unitevi a noi: “Il 2004 ha visto un caso di autonomia del giudizio rispetto al riconoscimento ‘canonizzante’, ed è La poesia italiana oggi. Un’antologia critica (Castelvecchi) di Giorgio Manacorda”. Nemmeno Remo Gaspari faceva così, atterrando a Gissi dove si era fatto costruire l’eliporto! A quando l’annuario di narrativa Castelvecchi firmato da Gava & Pomicino? E che cosa si sottolinea di questa antologia manocardiaca? Una cosa degna delle sapienti sceneggiature firmate da Flaiano: Manacorda scrive degli epigrammi nella sua antologia. Neanche gli autori di Nightmare ci avrebbero pensato. Perché gli epigrammi di Manacorda sono assai vicini al Freddy Krueger degli ultimi film, quando il genere horror abbraccia il nonsense ridanciano. Un esempio dell’epigrammare manacordiale? Eccolo: “Che botto! | Mi si è rotto Zanzotto”. Ahahahahhahahah! Ma l’avete segnalato a Zelig? No? Avete fatto bene. Infatti non è come sembra e ci pensa Febbraro a spiegarcelo, arrampicandosi sugli specchi di cotanta autonomia di giudizio: questi epigrammi sarebbero infatti l’”ennesimo sabotaggio pubblicitario della propria serietà critica, facili intercettori di fulmini, irritanti e felicemente arbitrari come spesso lo è la poesia [pensiamo infatti a Omero, Eschilo, Dante, Shakespeare, Rimbaud, Rilke, Celan, Bonnefoy: irritanti e felicemente arbitrari. ndr]. In essi molti avranno trovato ‘il solito Manacorda’…”. Molti? Il solito Manacorda? Ma solo noi leggiamo Manacorda da anni e sappiamo che è il solito! Ehi: Febbraro qui parla di noi!
E via, dunque, con una carrellata di giudizi articolati e complessi come quelle piste elettriche delle macchinine, con curvoni e sopraelevazioni e paraboliche e tunnel. Qui svettano giudizi pari almeno al valore dei poeti: tipo Bordini, di cui si ricorda che una poesia “drammaticamente esilarante, si intitola Fine della tragedia” e di cui si segnala “un brano del capolavoro di Bordini”; oppure Anna Maria Carpi. Ma ce ne sono tanti, tantissimi, di poeti, in questo mirabile caleidoscopio: la febbre critica di Febbraro non risparmia nessuno. Come Marco Caporali: “appartato, un autore come Marco Caporali ha voluto esserlo al punto che per anni è andato a vivere in Danimarca, nell’isola di Samsø, esattamente nella casa che fu del pittore Svend [un pittore che si chiama Svend!] Bagger”. Oppure un altro appartato, cioè “Fabio Ciriachi, che con Il giardino urbano (Empirìa) giunge già esperto al secondo libro”, davanti al quale “ci troviamo di fronte a un poeta perfetto”: che cos’è un poeta perfetto? Ha la marsina? Beve? Come si è poeti perfetti? Oppure ancora Matteo Marchesini, “che ha riunito nel suo volume d’esordio Asilo (Edizioni degli Amici [immaginiamo suoi]) […] la straordinaria densità visiva, psicologica e concettuale dei suoi versi”. Ci risiamo. Basta infatti andare nella sezione delle recensioni dell’annuario, e scopriamo chi è Marchesini: “Fino a oggi, il nome di Matteo Marchesini era noto agli addetti ai lavori soprattutto per la sua attività critico-saggistica, esercitata in larga parte sulle pagine di questo Annuario”. Ah. Ok. Si vede che Manacorda ci ha già il delfino assicurato. Infatti, seppure distante dai memorabili epigrammi del “solito” Manacorda, Marchesini pubblica, al centro dell’Annuario, una esilarante sezione di parodie poetiche (o meglio, come le definisce la quarta di copertina: “paradossali Possessioni poetiche): c’è un finto Mario Benedetti, un finto Valerio Magrelli, un finto Gianni D’Elia, un finto Antonio Riccardi! E’ bellissimo! C’è un’imperizia metrica straordinaria nell’imitare i versi di questi poeti, significa che non ne ha capito un’acca! E’ tutto comico al quadrato, al cubo! No, davvero, è un’iniziativa satirica che nemmeno Cuore o Clarence. E’ fantastico: come se Mengaldo, a metà della sua storica antologia, avendocela con Bigongiari, facesse scazonti divertiti sull’Essere firmandoli Piero Bigongiari! Ma questi poeti! Sanno anche farci ridere! Sono esperti anche in comunicazione e marketing! Questa sì che è satira! Sono così tanto avanti, questi poeti e critici dei terrazzini romani… Mica come i Wu Ming che prendono due pagine sul Times: i poeti no, hanno a disposizione il prestigioso Annuario di Castelvecchi! Li finanzia la Tuscia accademica! Tra i collaboratori c’è un Lefèvre! A quando Ratzinger? C’è anche Nefeli Misuraca, insieme a Giovanni Burali D’Arezzo! E anche Andrea Breda Minello!
Insomma: non comprate l’Annuario di Manacorda e Febbraro. E’ inutile, ce l’ho io, venite da me e ridiamo a crepapelle insieme. Di solito noi facciamo così: uno lo compra, lo leggiamo in cento, così siamo in “molti a trovare il ‘solito’ Manacorda”. Del resto sarebbe stupido spedere 24 euro, cioè all’incinca cinquantamila lire: tanto i soldi li mette la Tuscia, M&F non rischiano un bagno di sangue – rischiano al limite un bagno d’umiltà, che è il nostro più caloroso consiglio ai venerabili estensori di questo Padrino 6.0, dove mancano solo gli angeli che mangiano fagioli e i tusci che ululano trenodie. Per il resto, c’è di tutto e di meno. All’anno prossimo, stiamo già attendendo con ansia.
Pubblicato da Giuseppe Genna , il Martedì 17 Maggio 2005
PAOLO FEBBRARO: Reagire alla marginalizzazione della letteratura
2008-02-25 04:11:06|di Christian
...nella discussione della religione solo per effetto di contrasto...
PAOLO FEBBRARO: Reagire alla marginalizzazione della letteratura
2008-02-25 04:09:37|di Christian
"Ma l’ateismo della religione
ha il contrario nella poesia,
non nel sale della ragione."
Riporto questi versi di Febbraro perché toccano il costato e una ferita in cui corre la società occidentale, l’esistenza di un’altra via tra credo e razionalismo. Grazie a questi aspetti, nel corso della storia, si è sviluppato un sistema - penso al potere della chiesa fino al medioevo e a quello degli stati nazionali che lo hanno "riformato", ed infine l’ottica positiva: non so quanto la teologia cristiana sia stata imbevuta di filosofia greca (a detta di Russell, molto ubriaca), ed oggi non so quanto ateismo ci sia nella discussione della religiosa solo per effetto di contrasto con le ipotesi scientifiche, ad esempio. Questi versi di Febbraro hanno probabilmente sede in una riflessione simile... sarà vero? Chissà se l’autore risponde.
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PAOLO FEBBRARO: Reagire alla marginalizzazione della letteratura
2008-02-27 20:46:00|
Io quoto Febbraro.
L.A.