Absolute Poetry 2.0
Collective Multimedia e-Zine
Coordinamento: Luigi Nacci & Lello Voce
Redatta da:
Luca Baldoni, Valerio Cuccaroni, Vincenzo Frungillo, Enzo Mansueto, Francesca Matteoni, Renata Morresi, Gianmaria Nerli, Fabio Orecchini, Alessandro Raveggi, Lidia Riviello, Federico Scaramuccia, Marco Simonelli, Sparajurij, Francesco Terzago, Italo Testa, Maria Valente.
Il problema che si pone a quanti operano nel campo della relazione tra la voce e la parola (in teatro, nella poesia orale-performativa, nello spoken-word, etc.), è recuperare il patrimonio inventivo che nel corso dell’ultimo secolo ha aperto strade inusuali, esplorando l’intera gamma dell’articolazione performativa della parola e estendendone le stesse possibilità evocative. Non vi è dubbio che, in questa direzione, conservino valore inestimabile il Pierrot lunaire di Schoenberg e Per farla finita col giudizio di Dio di Antonin Artaud. Com’è noto, l’opera di Schoenberg è basata su un’interpretazione vocale che fa interagire la recitazione col canto, ovvero sulla modalità dello Sprechtgesang («canto parlato»). Si tratta di una particolare melodia che il performer ricerca intonando la nota, ma subito dopo abbandonandola liberando la voce dai vincoli del canto, per quanto rispettando il dettato ritmico della partitura. In pratica, una declamazione stilizzata, non realistica; una declamazione esagerata, tanto da fare supporre di trovarci di fronte ad uno straniamento ante-litteram. (Della «crudeltà articolatoria» di Artaud ho già accennato altrove) È indubbio che queste esperienze sono diventate una risorsa ineludibile per chiunque voglia cimentarsi efficacemente con la ritualizzazione sonora della parola. Si tratta, in sintesi, di fare rientrare la parola in una partitura fonetica basata non più sulla predominanza del significato, ma sull’espansione sonora del corpo. Attenzione: ho scritto non più sulla predominanza, e non sull’annullamento del significato; e la differenza non è di poco conto. In pratica, la parola viene trattata come identità sonora, senza però perdere la sua “narratività”; la partitura fonetica, d’altra parte, per quanto astratta possa essere, lascia sempre dietro di sé un «residuo di senso».
Propongo l’ascolto di cinque diverse esperienze che si rifanno, in modo del tutto personale, a questo percorso (cliccare sul titolo per ascoltarle o scaricarle).
•Primo ascolto: La scena della parola di Mauricio Kagel
Il primo brano è una composizione di Mauricio Kagel, Sur Scène, per attore, baritono e tre strumenti. Nella modulazione del parlato sono individuabili almeno cinque diversi modi, differenti uno dall’altro per volume, intensità, andamento, e con intenzionalità che vanno dal grottesco alla parlata professorale, ma anche con l’innesto di canti isolati, di sillabe o scarti di lingua. Come dice lo stesso Kagel, la parte vocale è scandita musicalmente, ma non è priva di elementi semantici; e infatti la declamazione dell’attore (Alfred Feussner) resta su un piano di comprensibilità. Il procedimento probabilmente allude all’alienazione dell’enunciazione quotidiana, priva del tutto di musica.
Durata: 16 min.
•Secondo ascolto: La voce sporca di Ekkehard Schall
È straniamento ogni stranezza, ogni variazione di stile … Così scrive l’attore Ekkehard Schall nel libro La mia scuola di teatro. E lo straniamento è davvero tutto in quella semplicità spiazzante. Lo straniamento nasce da un’impostazione culturale che guarda con sospetto alla linearità della comunicazione: punta cioè alla rottura della naturalità del discorso. È una sorta di rumore stilizzato. Propongo l’ascolto di un esempio di recitazione straniata, con tanto di inserti di declamazione nella dimensione del canto, così come indica Brecht nei suoi scritti. Si tratta di una selezione di brani dove Ekkehard Schall si cimenta con lo stesso Brecht. È interessante notare come la voce di Schall non diventi mai una bella-voce (eterea, sublime, consolante), ma conservi un fondamento brutale, come se l’attore volesse esibire la sua “origine corporale”. Il timbro è sporco, graffiante, direi viscerale …
Durata: 19 min.
•Terzo ascolto: Lunga vita allo spettacolo
Il terzo brano è di Giovanna Marini. Il suo «recitativo esasperato», ottenuto attraverso una scansione raffinata e allo stesso tempo debitrice della musica popolare, dimostra come la tensione espressiva possa trovare un suo assetto credibile senza sottostare ai limiti del “genere” … Qui, davvero, il canto e la recitazione si compenetrano uno nell’altra proficuamente … Il brano è una sorta di «oratorio laico», registrato nel 1968 e dal titolo Lunga vita allo spettacolo, ovvero le doglie del teatro d’oggi.
Durata: 15 min.
•Quarto e quinto ascolto: Due performance d’attore su Un pezzo di monologo di Samuel Beckett
La prima performance (clicca qui) è di Ronald Pickup; si nota chiaramente come la particolare lettura dell’attore aggiunga una dimensione ulteriore al testo, una dimensione direi musicale, qui sottolineata ulteriormente dal contrappunto di Robin Rimbaud (aka Scanner). Pickup sceglie la strada di una sorta di canto parlato che s-delimita la narrazione; è d’altra parte lo stesso Beckett a parlare chiaramente di una pièce al limite del teatro: da realizzarsi «senza drammatizzazione». Beckett riduce l’evento teatrale a «una voce che giunge dal buio»; come a dire: un teatro senza teatro …
La seconda performance (clicca qui) è di David Warrilow, tratta dalla pagina dedicata all’ascolto di opere di Beckett dell’archivio di Ubuweb. Il gesto vocale, in questo caso, porta dentro di sé ciò che la narrazione lascia intravedere, in particolare ricorrendo ad un espediente di tipo “rumoristico”, enfatizzando la sonorità del respiro e dell’affanno. La restituzione del testo avviene in una forma escrementizia della scrittura vocale.
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