Absolute Poetry 2.0
Collective Multimedia e-Zine

Coordinamento: Luigi Nacci & Lello Voce

Redatta da:

Luca Baldoni, Valerio Cuccaroni, Vincenzo Frungillo, Enzo Mansueto, Francesca Matteoni, Renata Morresi, Gianmaria Nerli, Fabio Orecchini, Alessandro Raveggi, Lidia Riviello, Federico Scaramuccia, Marco Simonelli, Sparajurij, Francesco Terzago, Italo Testa, Maria Valente.

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PASSANDO PER NEW YORK

Diego Zandel a proposito del libro di Sinicco

Articolo postato mercoledì 13 dicembre 2006
da Luigi Nacci

Ringrazio Diego Zandel per la gentile concessione della presentazione al libro di Christian Sinicco fatta alla quinta Fiera della piccola e media editoria di Roma il 10 dicembre scorso.

***

Christian Sinicco è un giovane poeta triestino. L’ho conosciuto attraverso un altro giovane poeta triestino, Luigi Nacci, suo sodale. Almeno così penso perché, tranne oggi, qui, li ho incontrati sempre insieme. Certamente fanno parte di una banda di poeti, gli Ammutinati, che raccoglie, a mio avviso, il meglio dei poeti triestini della nuova generazione e rappresenta il futuro della poesia triestina e, più in generale, giuliana.

Questo lo dico non per dare una connotazione locale alla poesia o tutt’al più, come si usa per quelle lande del nord, una connotazione mitteleuropea. Anzi! Lo dico per quel di innovativo che rappresentano per la poesia di lingua italiana, a livello nazionale, provenendo da un luogo - Trieste - che alla poesia ha dato un grandissimo poeta come Umberto Saba e, più in generale, una letteratura che porta i nomi di Svevo, Slataper, Stuparich, Quarantotti Gambini, Tomizza, Magris.

Letteratura in cui di locale c’è solo la geografia dei luoghi, l’humus di una cultura multicentrica, che come le grandi navi del Loyd Triestino, una grande compagnia storica, partivano dal porto di quella città per attraversare gli oceani, raggiungere l’Asia, l’Australia, le Americhe. Quindi una letteratura, e una poesia nello specifico, di grandi, grandissime aperture.

Ed è quella che, non a caso, fin dal titolo del libro, Passando per New York, fa le pagine di questa prima raccolta di versi di Christian Sinicco.

Credo, però, sia necessario, proseguire nella conoscenza del nostro poeta e, più in generale, della banda degli Ammutinati.

La quale, al di là delle nobili origini, ha però un altro merito: quello di costituire una rottura, più che con una tradizione, con una condizione culturale ormai asfittica che negli ultimi anni sembra essersi fissata su, appunto, questa tradizione, ripiegata su se stessa, orgogliosa di essa fino al punto da non conoscere, o riconoscere, questi giovani poeti.

Sembra quasi che a Trieste il tempo si sia fermato, non dico a Saba, perché più recentemente ci sono stati altri poeti di valore, dalla vecchia Lina Galli, grandissima, a Marcello Fraulini, ai meno vecchi, diciamo della mia generazione, come Claudio Martelli, Sergio Brossi, ma anche poeti dialettali come Claudio Grisancich e, molto prima di lui, Guido Sambo oppure, il coetaneo di Saba, Virgilio Giotti.

Ma tutti, questi ultimi, per quanto anche innovativi, brillanti e vigorosi, sono figli di un certo modo di intendere la letteratura triestina come un orto concluso. Per cui, sia a livello editoriale che, più generalmente, ufficiale, vuoi nelle cerimonie, vuoi negli eventi, vuoi sulla stampa, si ritorna sempre a loro, come se la grossa novità che Sinicco, Nacci e il resto degli Ammutinati non esistesse. O non esistesse ancora.

Per fortuna, c’è una giovane e importante studiosa, Cristina Benussi, docente di letteratura al dipartimento di lettere e spettacolo della università di Trieste, dei quali i nostri sono stati allievi, che li ha seguiti e continua a farlo. Tant’è che, non a caso, anche la prefazione a questo libro di Sinicco che oggi presentiamo porta la sua prefazione.

Ma, al di fuori, di questo circolo universitario ristretto, isolato - se possibile - anche all’interno della stessa università, non hanno audience, sono poco conosciuti, a dispetto del casino che, per farsi sentire, gli Ammutinati pure fanno in città.

Si sono battuti, ad esempio, con tanto di raccolta di firme prestigiose, affinché alla direzione del Teatro Stabile di Trieste fosse cacciata la pur dolce e simpatica Maria Giovanna Elmi. La quale, con un passato semplicemente di annunciatrice televisiva, nulla sa - per sua stessa ammissione - di teatro.

Al suo posto si chiedeva fosse messa la vicedirettrice Cristina Benussi che sul teatro ha più di un titolo, per l’insegnamento, i libri che ha scritto e l’autorevolezza.

La Elmi, viceversa, era stata scelta solo per essere, da una parte, un nome televisivo e, dall’altra, per i legami di famiglia con una parte politica, la destra, che oggi amministra Trieste. La quale parte politica, naturalmente, sguazza nella maniera più banalmente locale in quella tradizione triestina di cui abbiamo detto.

Una tradizione che, invece, avrebbe tutte le ragioni per non sclerotizzarsi, per non fermarsi a se stessa.

Ebbene, nonostante la battaglia degli Ammutinati, vistosa per i nomi che hanno sostenuto la necessità del cambio - Sinicco ce li può fare - non ha avuto, si può dire, nessuna eco ufficiale in città. E se la testa della Elmi è poi caduta, è avvenuto semplicemente per evidenti incapacità (senza che ciò, comunque, abbia finito col premiare la Benussi).

L’impegno culturale degli Ammutinati naturalmente continua per altre vie e finisce, spesso, per incontrarsi con l’impegno politico. Lo stesso Sinicco si è addirittura presentato alle ultime elezioni amministrative. Con ciò non volendo assolutamente definire politica la loro poesia. O se lo è, non è partitica o di parte, bensì politica in quanto rompe schemi preordinati.

Per spiegarlo meglio, colgo qui l’occasione per fare un inciso che riguarda una poesia contenuta in Passando per New York, e cioè i versi di Argentina, su una poesia di Carmen Yanez, con la quale Christian sottolinea la contraddittorietà di una poesia della cilena Carmen Yanez la quale aveva scritto “La poesia non serve a niente”, per poi scoprire che nel 1975 - per altro, anno di nascita di Christian - la poetessa scompare nelle mani della polizia politica di Pinochet.

Per cui, altro che, la poesia non serve a niente! È il massimo del paradosso. E Christian lo esprime, cogliendo, credo, il momento delle grandi proteste di popolo in Argentina per la bancarotta a cui il governo aveva portato quel grande Paese, costringendo la gente a scendere in piazza.

Argentina, io vedo / Sulla strada che porta al nulla / Che il bisogno è poesia, / l’osso della verità. /Argentina, /io scaglio i tuoi morti per questo bisogno / sul parlamento dei poeti.

E questo nella convinzione del potere salvifico e politico, in senso lato, della poesia e dei poeti, con questa visione di un loro parlamento più degno di quello governato da Menem.

La sua, naturalmente non è una visione utilitarista della poesia. Piuttosto esprime il grande valore testimoniale che la poesia ha quando non si adagia su se stessa, ma si spinge oltre ai limiti. Oltre ai limiti, sia ben inteso, in tutti i sensi, linguistici, di composizione, di rappresentazione, di proiezione, di strumenti.

Non solo o, addirittura, niente affatto secondo gli schemi del vecchio impegno politico, del cosiddetto engagement, di sartriana memoria.

La poesia di per se stessa, nel momento in cui rompe gli schemi per uscire dai confini che la tradizione vuole gli siano dati, è rottura, e quindi impegno.

Ritorno un attimo al sodale di Christian, Luigi Nacci.

La scorsa estate, qui a Roma, in una galleria d’arte, anzi nella cantina di una galleria d’arte, Nacci ha fatto una rappresentazione, durata alcuni giorni, della sua poesia. C’erano dei cartoni, quelli grossi, di scatola, che percorrevano la cantina a mo’ di pannelli. Su questi cartoni c’erano qui e là ritagliati a varie altezze dei buchi. Il visitatore metteva gli occhi su uno di quei buchi e vedeva dall’altra parte, proiettati su una parete i versi di alcune poesie dell’autore, con dei disegni che, se la memoria non mi tradisce, dovrebbero essere dello stesso pittore che ritroviamo sulla copertina di Passando per New York. Il fruitore della poesia poteva così, attraverso i buchi, leggere, proiettati sulla parete i versi, ma nello stesso tempo udire voci diverse, di uomini e donne stranieri o di semianalfabeti e così via, recitare come potevano, non senza naturali e attraenti storpiature, quei versi.

Si può definire tutto ciò “poesia visiva”, ma è qualcosa di più. E’ un rompere gli schemi della poesia, che per essere giudicata tale dovrebbe per forza seguire delle regole. Ma le regole valgono proprio perché si possono rompere.

Sinicco lo fa in un altro modo, suo personale. E lo fa addirittura rompendo gli schemi di chi già a sua volta rompe gli schemi.

Mi riferisco in particolare alla poesia che apre la raccolta, cioè a Primo passaggio su New York - in risposta ad un Arcano di Jack Hirschman.

Innanzi tutto, bisogna sapere chi è Jack Hirschman. È un grande poeta americano, comunista, il che lo fa un soggetto raro negli USA e mal tollerato. Viene spesso in Italia, e parla anche abbastanza bene l’italiano. Io sono andato un paio di volte con lui a mangiare una pizza perché a Roma abita a casa di un mio amico, giornalista del Manifesto. Anziano, un po’ sdentato, vestito in maniera molto informale, vive per lo più a San Francisco in una camera d’albergo di terza categoria. E’ un tipo molto allegro e di grande acume politico, straordinariamente critico nei confronti non solo della politica imperialista americana, ma anche nei confronti dello stile di vita estremamente consumistico, omologato e conformista, degli americani.

È tanto duro con il suo paese che Christian Sinicco, che non è conformista né filo americano, polemizza in qualche modo con lui attraverso la poesia che ho citato, scritta, paradossalmente, due giorni prima dell’11 settembre. Ed è una poesia, che vi invito poi a leggere, in risposta ai versi di Hirschman che Sinicco spiega così nelle note, molto interessanti, ai propri versi che concludono il suo libro.

Scrive Sinicco:

“Domenica 8 settembre incontrai Jack Hirschman al Teatro Sloveno di Trieste dove si teneva la manifestazione di poesia Sidaja. Non ero minimamente d’accordo, sui toni finali di quella poesia, L’Arcano Baghdad-San Francisco, né sull’utilizzo del materiale organico-mediatico di Carlo Giuliani/G 8 per quel suo nuovo e simbolico Arcano politico letto la sera. Basta con i martiri - scrive Sinicco - basta ricordare i morti in nome di ideologie. Essi non respirano, hanno dimenticato il loro dolore.”

E, dopo aver confrontato la poesia di Jack Hirshman con quella di Rafael Alberti di cui “molti versi illustri possono essere considerati di sinistra”, ma “non si barrica contro quello o quell’altro, trovando slancio oltre il proprio confine o confino ideologico”, arriva a criticare i versi finali della poesia di Hirshman, in quanto “l’uso del simbolo con quelle modalità andava a creare un out-out retorico (o stai di qua o stai di là) insensato”.

“Hirshman, scrive Sinicco, come un patriot impazzito, avrebbe voluto che ci sollevassimo per distruggere la piovra fascista alimentata dagli State”, ma “la verità” - ed ecco la critica di Sinicco - “è che la procedura poetica utilizzata da Jack Hirshman scarica spesso l’emotività nel finale in un concetto generale, che può risultare banale - e nel caso sopraccitato ha distrutto banalmente una grande poesia”.

Questo, per dire che, per essere politica, autenticamente politica, la poesia deve liberarsi del fardello ideologico che finisce per rendere banale, o più precisamente conformista, direi io, anche la poesia migliore.

Ovvero, la poesia, per avere un suo valore anche politico, rivoluzionario, deve rompere il conformismo a cui rischia di portarci l’ideologia a cui apparteniamo, qualunque essa sia, nel momento in cui, nel fare versi, facciamo rigidamente riferimento ad essa. Insomma, bisogna andare oltre. La poesia deve andare oltre.

Non è facile. Il poeta è innanzitutto un uomo con tutto il suo portato, anche ideologico. Quello di Hirshman poi è stato conquistato in un paese che vede il comunismo come il nemico per antonomasia e, quindi, per lui ha un valore fortemente identitario e va rispettato (soprattutto, per capirlo pienamente non dobbiamo vederlo con occhi europei).

Tuttavia, il messaggio di Sinicco indica una direzione per la poesia, che è l’indicazione, appunto, di un ammutinato.

Ed essere un ammutinato in questa Trieste di oggi, una città in qualche modo clonata, che non è più la stessa di Svevo, Saba, Stuparich ecc., ma che si ostina a considerarsi quella, ferma a quei nomi, assomiglia un po’ - senza esagerare - all’essere comunista di Hirshman in America.

D’altra parte, per restare adesso a Trieste e Sinicco e Ammutinati, la situazione di isolamento è tale che, ad esempio, lo stesso Claudio Magris che rappresenta una inversione di tendenza rispetto al clone cittadino, e che potrebbe dare una scossa all’ambiente, vive a sua volta isolato rispetto al contesto, per cui per questi giovani non c’è incontro, non c’è una sponda a cui approdare.

E, forse, tutto sommato, può anche un bene perché questo libera Sinicco e gli Ammutinati dal rischio di appartenere a una corrente di pensiero, a quel “o di qua o di là”, che li renderebbe meno liberi.

Quando ero giovane e andavo a Trieste, vedevo che c’erano sempre un tre, quattro salotti che si scontravano tra loro. C’era quello della Gruber Benco, figlia, ormai orfana, di uno scrittore molto considerato come Silvio Benco che aveva i suoi fedeli da una parte. C’era il salotto di Anna Pittoni, donna e amante per molti anni di Stuparich, che aveva i suoi. C’era la Società Artistica di Trieste di Marcello Fraulini e Lina Galli, che si incontravano tutti i lunedì al Tommaseo, che avevano i loro accoliti. E c’era una forte rivalità tra i vari gruppi. Tutti si cibavano in qualche modo dei resti di qualcuno che aveva fatto grande Trieste. E gli outsider erano pochi. Tanto da suggerire a qualcuno, tipo il grande Bobi Bazlen, consulente prestigioso e ascoltato della prima Einaudi, tra i fondatori dell’Adelphi, ad andarsene per sempre, senza voler mai più far ritorno.

Dico questo perché riconosco le difficoltà di Sinicco e degli altri giovani a fare poesia a Trieste e, soprattutto, farla fuori dagli schemi.

Ora non voglio qui parlare di ogni singola poesia della raccolta, perché la poesia - e soprattutto questa di Sinicco - va letta e meditata. E il libro acquistato.

Vedrete poi come essa sia molto matura, sorprendentemente matura rispetto all’età di Christian Sinicco.

Voglio solo, in conclusione, esprimere una mia impressione dopo aver letto il libro. Conosco Christian come un ragazzo allegro, qualche volta ridanciano. Tante volte parliamo tra noi per battute. Affrontiamo anche discorsi seri, ovviamente. Comunque, prima di leggerlo, proprio per il carattere di Christian, mi aspettavo una poesia molto ironica. Invece, l’ho trovata fortemente riflessiva, dolorosamente incazzata, intellettualmente polemica, anche nelle note, ampie e importanti, che chiudono il libro. E questo costituisce un po’ la mia sorpresa. Forse perché, oltre al carattere che gli imputavo, è un ammutinato. E dagli ammutinati mi aspetto sicuramente ferocia ma fatta, per così dire, in baldoria.

Grazie.

***

Libro è acquistabile qui.

La mia recensione qui.

11 commenti a questo articolo

> PASSANDO PER NEW YORK
2006-12-15 09:14:26|

Pillan

Afri

Palme

Spessot

Danieli

Dobrilovic

Zorat


> PASSANDO PER NEW YORK
2006-12-14 16:35:01|

Olof come Olof Palme, il politico svedese assassinato?


> PASSANDO PER NEW YORK
2006-12-14 15:27:10|di Olof

Chi sono gli Ammutinati? Sempre si parla solo di due, Nacci e Sinicco, ma a quanto pare sono più di venti... Non vorrei che il nome fosse solo uno specchietto per giustificare la necessità di avere un gruppo, o di essere un gruppo, di condividere insomma per poter essere di tendenza...
Se qualche altro ammutinato legge qui, faccia un fischio.
Olof


> PASSANDO PER NEW YORK
2006-12-14 12:14:09|di Christian

Hirschman, che viene spesso a Trieste, l’ho criticato, e secondo me giustamente. L’arcano Bagdad San Francisco (tra l’altro gli arcani sono i primi componimenti che Hirschman ha scritto utilizzando la tastiera del computer) sarebbe un’opera grandissima, senza quel finale. Non che non esista un problema, ma accidenti, secondo me in quel momento non sapeva più come chiudere (il testo è molto lungo):

da bibliografia postulata dall’autore

1. primo passaggio su New York in risposta ad un Arcano di Jack
Hirschman:
Scende la neve nera, il primo verso, è stato composto la
settimana precedente all’11 settembre. Sabato 7 settembre - il giorno
dopo sarebbe giunto a Trieste Jack Hirschman - assieme a Matteo
Danieli e Mary Barbara Tolusso andai sul carso sloveno e tradussi
“L’Arcano Baghdad-San Francisco”. Domenica 8 settembre
incontrai J.H. al Teatro Sloveno di Trieste dove si teneva la
manifestazione di poesia “Sidaja”. Non ero minimamente d’accordo
sui toni finali di quella poesia, “L’Arcano Baghdad-San Francisco”,
né sull’utilizzo del materiale organico-mediatico di CarloGiuliani/G8
per quel suo nuovo e simbolico Arcano politico letto la sera. Basta
con i martiri, basta ricordare i morti in nome di ideologie. Essi non
la respirano, hanno dimenticato il loro dolore. Pesavo J.H. attraverso
le poesie politiche di Rafael Alberti (grande lo stile dello spagnolo
che non va a contestare i simboli, ma le modalità dell’azione nelle
società umane: sempre nel desiderio di comunicare, sebbene molti
suoi versi illustri possano essere considerati di “sinistra”, la poesia
di R. A. non si barrica contro quello o quell’altro, ma trova slancio
oltre il proprio confine o confino ideologico, nell’altro, nella visione
che avanza); e lo soppesavo anche attraverso gli scritti di Pier Paolo
Pasolini, sempre alla ricerca del livello ulteriore per osservare la
scena, per far scorrere l’idea o il giudizio personale. J.H., come un
patriot impazzito, avrebbe voluto invece che ci sollevassimo per
distruggere la piovra fascista alimentata dagli States: da americano
coraggioso desiderava una libertà vera, combattendo la corruzione
dei principi costitutivi nella politica estera del proprio paese.
Tuttavia l’uso del simbolo con quelle modalità andava a creare un
out-out retorico (o stai di qua o stai di là) insensato. La verità è che
la procedura poetica utilizzata da J.H. scarica spesso l’emotività nel
finale in un concetto generale, che può risultare banale - e nel caso
sopracitato ha distrutto banalmente una grande poesia. Nacque così
in me la volontà di rispondere: i concetti lasciati a sé stessi non sono
che curiosi origami statici sulla sabbia, buoni per farne una
collezione, osservarli con bramosia da casa. Il contrario sarebbe stato
portare la poesia verso un elemento semplice o composto, simbolico
o surreale, in cui la significazione tutta si trasforma per comporre
ulteriori angolature emotive nella persona che ad essa si relaziona,
ascoltando l’opera, e il cui senso giunge per l’efficienza fisica dei
suoni e delle loro correlazioni significative (come la neve nera, il
volo, la limpida lampada, che è quasi il faro di questo sistema). In
sostanza, per carattere sono contro a dire maiale ed intendere maiale:
è più interessante descrivere il maiale come una vespa. E la risposta
è nell’attualità di una comunicazione sociale la più vasta possibile
nella più alta forma che mi è possibile, né di massa o massificante
né per una élite intellettuale. Oltre la linea - come direbbe Ernst
Junger. Nella mia poesia il verso iniziale e il secondo indirizzato a J.
H. si uniscono in una Manhattan dirottata e ricomposta la sera stessa
dell’11 settembre, finalizzata il giorno seguente con la prima stesura
della poesia, e non è una bella poesia questa. Perché la neve nera sia
caduta invece, è un mistero orribile."
La mia risposta a Hirschman è questa:

primo passaggio su New Yorkin risposta ad un Arcano di Jack Hirschman

Scende la neve nera

sopra New York,

la neve nera di piccole labbra rosate

e nuvole da cui non vorrei sgorgasse l’origine

di una creatura talmente inospitale da fluttuare

nella natura... O Man, per ogni spenta coscienza

i versi composti dalla sera inginocchiata,

dalla sera frantumata, dalle tante parole inutili

posano luci e melograni di pensieri

infiammati con le ultime lettere dondolanti al vento.

Quotidiani non si possono stendere, non ci sono

sul canto che libera il mio vuoto volante

su questa sera che cade portando la farsa con sé.

Apro la bocca ai sultani delle stelle

dove svaniscono lentamente ospedali su milioni di ali,

apro un varco in me per tutto ciò che non esiste

e viene tollerato da moltitudini, in piedi

riscaldandosi dal freddo polare di un’anima pensierosa

che sente i battiti e il respiro della storia mentre le sue gambe di cielo

sgretolano come marmo e materiale plastico

al primo passaggio dell’amore.

Sotto la tenebra di grandine alterata, che ci vorrebbe ricoprire, la voce

di un uomo come tanti altri in fila scomposta calpesta

su quel ponte stanco il destino invisibile che attraversa tutti:

ultimamente è percorso masticato

di un sentimento di sgomento, di panico

perché vivere è soffrire e soffrire è vivere la guerra

tormentata di una Psiche roteante

che sull’Olimpo della memoria brucia ogni suo dio.

Ed è dall’inizio di questa oscurità cerebrale che io gli chiedo

solo amore per me e per ogni uomo, ma vedo in lui l’unità di crisi

e più di diecimila uomini operosi che corrono in cerchio su occhi di buio

e hanno paura di morire ma danno la vita per la vita...

All’inizio di questa oscurità cerebrale

questo folle volo non può ancora atterrare sui sentimenti che vorticano ma le ragioni

dei signori degli eserciti già sostituiscono il signore degli eserciti dov’è la Palestina

in festa con rami d’ulivo e celebra

l’angoscia dell’uomo che come il palestinese cattolico o mussulmano ha ancora angoscia, o l’ebreo

israeliano o il mussulmano israeliano sulla linea rossa

di sangue che continua a fuoriuscire

senza fine, senza pace,

senz’amore...

Sposi

a Cana

una volta

danzavamo

Ma chi ha barattato

questo volo libero e individuale?

Chi ha barattato - tutti noi l’abbiamo fatto -
ha due soluzioni da meditare e il rischio è contemporaneo:

la guerra globale, gli eserciti degli insetti potenti che senza nome sul portafoglio di valori

costruiscono la torre dell’invidia, piena di nicchie, cadente e ne fanno simbolo

del malessere, dio di carta, e da ogni parte vogliono planare

senza misericordia, restituire distrutta

con un processo lento ed inquinante questa limpida lampada con il nulla oleoso

che raccolgono come un gioco sotterraneo di soldi,

di odio, di interessi sulla nostra coscienza!

La coscienza che si illude per non vedere,

gli uomini con falsi sentimenti e regole fallite di benessere

che quotidianamente stampano anima di marca,

la guerra che ci uccide da dentro e che comincia fuori

a trasmettersi dai nostri esseri condizionati, manichini di altri!

O la limpida lampada

che piange una pupilla per contrastare questo nulla,

la limpida lampada sopra Washington, Pittsburgh, Philadelphia, Seattle, Kabul

in fiamme, Gerusalemme, Pechino, Mosca, New York sui suoi palazzi!

New York

da dove la gente è in fuga

e su quel ponte non è solo New York in fuga.

Se come un solvente assieme diradiamo l’ignoranza con ogni mezzo

ed altre lampade con simili occhi che piangono allargando questa luce

tante luci espandono sulla pianura senza fine

sopra la nostra coscienza,

sulla nostra coscienza,

nella coscienza e oltre,

dentro

sciogliendo la neve nera

che cade,

sciogliendo la neve nera

la neve nera

la neve nera

la neve nera

non cadrà

mai più.


> PASSANDO PER NEW YORK
2006-12-14 00:28:32|

Luigi, non lasciarti ingannare, sono tutte dicerie messe in piedi da quel fetente di Durante.

Su una sola cosa ha visto (e detto) giusto: che la parola "patria" mi fa cagare. Un’invenzione, come direbbe anche Jack, per continuare a metterlo in quel posto ai paria della storia. Critici letterari compresi. (Che alcuni di loro poi ci godano, beh, questo è un altro discorso...).

Buona notte, figliolo. E tieni sotto controllo il Sinicco: ultimamente lo trovo un po’ intruppato, meno ammutinato del solito. Sarà l’aria delle isole del Pacifico, non so. Eppure dovrebbe ben ricordarsi del Bounty: non era lui, il buon Christian, l’ideatore della rivolta a bordo?

Comunque, finché paga da bere, gli perdono tutto.

U.C.


> PASSANDO PER NEW YORK
2006-12-13 23:36:21|di Luigi

...quindi, U.C., sei un traditore della patria e degli ospiti? E sei toscano e morto di fame? aspetta... fammi pensare, beh, di critici che rispondono a queste caratteristiche ce ne sono parecchi in Italia :-)


> PASSANDO PER NEW YORK
2006-12-13 23:24:21|

Sono Ugolino Conte, caro Luigi. La mia nota biobibliografica la trovi a pagina trentatrè dell’antologia dei critici famosi redatta da un certo Durante Alighieri (sarà sicuramente un eteronimo, un nick d’antan). Cercami solo nel primo dei tre volumi dell’opera: agli altri due mi è vietato l’accesso.

Prepara le bottiglie e attento al cranio, capigliatura compresa, Nacci. E’ già da un po’ che tengo d’occhio anche te...

U.C.


> PASSANDO PER NEW YORK
2006-12-13 22:44:54|di Luigi

U.C., chi... sei?


> PASSANDO PER NEW YORK
2006-12-13 22:44:09|di Luigi

Anch’io non condivido lo stato di "isolamento" di cui parla Diego, ma forse quest’impressione gli deriva dal fatto che vive a Roma.

Inoltre l’immagine della città legata in modo indissolubile a Saba, Svevo, Stuparich & Com. si sta sgretolando - un po’, forse, anche per merito nostro (se merito si può considerare, di contro ai miei, nostri più numerosi demeriti), non in quanto poeti e/o scrittori (o non solo), ma in quanto operatori culturali. Quella figura -l’operatore/organizzatore culturale - di cui parlava qualche giorno fa qui anche Andrea Inglese e che meriterebbe una riflessione approfondita, di ordine sociologico innanzitutto.

Comunque il pezzo di Diego è scritto con grande trasporto e passione, ed è il motivo principale che mi ha spinto a pubblicarlo.


> PASSANDO PER NEW YORK
2006-12-13 22:20:02|

Vi perdono le "critiche" a Hirschman. Ma solo perché dovete pagarmi da bere...

U.C.


Commenti precedenti:
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