Absolute Poetry 2.0
Collective Multimedia e-Zine
Coordinamento: Luigi Nacci & Lello Voce
Redatta da:
Luca Baldoni, Valerio Cuccaroni, Vincenzo Frungillo, Enzo Mansueto, Francesca Matteoni, Renata Morresi, Gianmaria Nerli, Fabio Orecchini, Alessandro Raveggi, Lidia Riviello, Federico Scaramuccia, Marco Simonelli, Sparajurij, Francesco Terzago, Italo Testa, Maria Valente.
Questa bara di cristallo è fredda, e dunque mi obbliga a riscaldarmi facendo rimbalzare il fiato sulle pareti levigate, e davvero non posso sfuggire a questa immobilità e a questa gelata grottesca; allora devo rinunciare a ogni idea di sollevarmi e riprendere a camminare. A poco a poco le pareti si appannano e anche la luce fioca che arriva da fuori s’ingrigisce. Devo prendere atto che ogni mio tentativo, in questa cavità di cristallo, è solo un passatempo: malgrado la buona volontà, non posso resistere dentro questa bara che fa parte ormai del paesaggio. Credere il contrario è un errore patetico.
C’è un’etichetta fissata alla parte destra della parete superiore. Non riesco a decifrare con esattezza la scritta, ma credo sia il mio nome. Uno strato di polvere lo copre, come se la mia permanenza in questo strano recipiente durasse da tanto tempo. Sotto il nome, in rosso e appena leggibile, è riportata la sigla con cui sono stato catalogato: COM, abbreviazione di comunista. Più la guardo, e più mi diventa estranea. È vero che per tutta la vita ho tentato di dare plausibilità, pratica e filosofica, a questa parola; è anche vero che col tempo, pur non smettendo di aderirvi con la mia parte più intima, ho smesso di pronunciarla. Quel luogo è troppo lontano.
Dai fori praticati sul fondo della bara, filtra, oltre all’aria, anche dell’acqua, sospinta dentro dalla tormenta accecante che sta scuotendo il paesaggio. I fiocchi di neve, posandosi sul cristallo, si sciolgono e formano piccoli rivoli d’acqua. La bara si sta lentamente allagando. Una parte del mio viso è rigata da acqua gelida, e dagli occhi mi è ormai sparita ogni espressione di odio. Ogni resistenza è impossibile; morirò assiderato e singhiozzando in solitudine. Il cuore sta perdendo colpi.
Intorno sono tutti immobili, come mummie. Senza segni di sofferenza o di gioia, una fila di persone mi attende fuori la bara. Gli occhi semiaperti, le labbra sbavanti, le facce pallide, sembra che aspettino con trepidazione la mia uscita; una fila di spettri con la mano tesa verso di me, tutti intenti a porgermi un foglio. Uno sconosciuto, nel silenzio soffocato, mi mostra una maschera a ossigeno. Per averla – mi fa capire a gesti – devo semplicemente mettere un segno “x” sulla carta. Mi sento dentro un orrore assolutamente nuovo, mai prima conosciuto. E sento di essere dentro la stessa vecchia verità: fuori c’è un gelo ancora più intenso di quello della bara.
C’è uno strano silenzio. La tormenta, nonostante il vento forte, accade tutta senza suono. Ho buona parte del corpo immerso nell’acqua. Gli occhi esprimono scetticismo, e nessuna eccitazione si rivela tra le pieghe del viso. Quello che ho di fronte è uno dei luoghi più desolati della terra. Non riesco a trovare l’aggettivo adatto per descriverlo. La mia ibernazione, del tutto casuale, e per nulla cercata, è bastata a farmi intravedere, pur nella impenetrabilità della tormenta, una tenebra glaciale. Non c’è definizione che possa svelare questo mese invernale che dura da decenni. Ogni nome è coperto da un sudario di ghiaccio.
All’improvviso lo sconosciuto dice qualcosa. Seguo il movimento delle labbra e ascolto con attenzione. Un suono smorzato, con un eco metallico, passa attraverso le pareti della bara. «Non abbiamo fuoco» – dice l’uomo. «E il freddo influisce sui nostri pensieri». «È impossibile dormire» – aggiunge – «e siamo esausti e infreddoliti e siamo sospinti verso il nord, senza provviste». «Ma ci hanno promesso i tropici» – la sua voce è piuttosto lontana, ora. Lo sconosciuto interrompe il suo monologo afono e comincia a scavare furiosamente, con le unghie, il cristallo della parete superiore. A intervalli regolari si interrompe, e riprende a parlare animosamente. E finalmente, dopo quasi un’ora di furioso scavare, una scritta appare chiara: «Vota per salvarci».
«Perché?» – grido dall’interno della bara. In lontananza intravedo soltanto l’aspetto triste e minaccioso di un ghiaccio ulteriore, senza sbocco o luce. Una grande distesa senza fine. L’acqua gelida sta riempiendo la bara, e il mio corpo è ormai rigido. Guardo verso l’alto. Lo sconosciuto, a soltanto trenta centimetri da me, prosegue il suo abominevole soliloquio, senza però rispondermi. Condividerei con lui la necessità di uscire dalla glaciazione, se solo vedessi una possibilità di uscirci realmente mettendo la mia “x” su quel foglio. «Perché?» – chiedo di nuovo. Non sento alcuna risposta.
Lo sconosciuto si allontana. Per una frazione di secondo provo dispiacere. Metodicamente, torno nella mia certezza e chiudo ogni comunicazione con l’esterno. Ancora otto minuti. Non posso resistere di più. La violenza gelida della tormenta mozza il mio respiro. Lo spettacolo, fuori, continua, anche se non diverte più. Un rombo assordante smuove le mummie viventi che circondano la mia bara, sempre tese verso di me con i loro fogli. Per una frazione di secondo sembrano animarsi. Poi tornano nella loro apatia, partecipando, con i loro sguardi spenti, ai nuovi nummos et circenses.
«La democrazia, nome ideologico della glaciazione, è questo paesaggio totalizzante. E tanto più vasta è la partecipazione, tanto più totalitaria diventa». Mentre pronuncio queste frasi, lo sconosciuto riappare con in mano una scure. Protende le braccia e flette le ginocchia, preparandosi al colpo. Guarda in basso e vede il mio sorriso beffardo. «Sei in ritardo» – dico forzando i polmoni. Le sfumature spettrali del ghiaccio delineano alcune crepe, mentre lo sconosciuto, in preda a una rabbia cieca, sbatte convulsamente la scure contro la parete superiore della bara. La sua insistenza illogica è un motivo in più, e tutt’altro che secondario, per affermare la mia estraneità. Non avverto la necessità di uscire dal mio spazio ristretto.
Questo ghiaccio è la forma del contemporaneo. Non ho altro davanti agli occhi. E neppure sferrando calci disperati posso aprire un varco. L’invadenza ingombrante di questo ghiaccio ha reso ogni palpitante aurora un pallido ricordo. Ed io, privato di ogni speranza, e come in preda a un torpore appagante, non posso farmi ostile; posso solo osservare il ghiaccio che si forma, con sempre maggiore forza, dentro la mia bara. Posso vedere come, con lentezza torturante, si affermi vincente il bastione invincibile del ghiacciaio. Lo sconosciuto, chiedendomi la “x”, si illude di negarlo. Io prospetto difficoltà pratiche ed epistemologiche talmente enormi da rendere necessaria la rinuncia. Sono stufo di ogni illusione.
Se rinuncio, è perché non posso incidere il ghiaccio. Ma già soltanto il fatto di riconoscerlo, mi pone al di là del suo orizzonte.
2 commenti a questo articolo
PERCHÉ NON VOTERÒ ALLE PROSSIME ELEZIONI
2008-03-16 13:48:54|di ermi
Vuoi sapere perché non voterò alle prossime elezioni? perché me ne sarò ritornata skifata in UK! 4 anni di patetico teatrino sono stati abbastanza!
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PERCHÉ NON VOTERÒ ALLE PROSSIME ELEZIONI
2008-03-17 10:29:23|di Giampiero Marano
Condivido pienamente il testo di Nevio
Le ragioni dell’astensionismo sul blog
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