Absolute Poetry 2.0
Collective Multimedia e-Zine
Coordinamento: Luigi Nacci & Lello Voce
Redatta da:
Luca Baldoni, Valerio Cuccaroni, Vincenzo Frungillo, Enzo Mansueto, Francesca Matteoni, Renata Morresi, Gianmaria Nerli, Fabio Orecchini, Alessandro Raveggi, Lidia Riviello, Federico Scaramuccia, Marco Simonelli, Sparajurij, Francesco Terzago, Italo Testa, Maria Valente.
Che non ci fosse più per i poeti alcuna istituzione vincolante, era già per Mallarmé il segno di una condizione nuova della poesia. Era appunto il segno della «possibilité, de s’exprimer non seulement, mais de se moduler, à son gré». Ogni poeta doveva ormai inventarsi il proprio ritmo. Nello stesso tempo Mallarmé concludeva paradossalmente che bisognava cedere l’iniziativa alle parole. Questo paradosso definisce la poesia moderna. All’inverso della poesia romantica che teorizzava lo sviluppo dei contenuti, l’adeguazione di verità e significato, ed era perciò una poetica orientata in direzione semantica, la poetica moderna privilegia piuttosto le funzioni che i temi, piuttosto le relazioni tra i segni che i significati. Figure, trame, storie cessano di essere decisive, ed è la sintassi a diventare dominante. Il linguaggio non è più luogo di riconoscimento, ma di straniamento. (Il percorso è dal noto all’ignoto, e non viceversa). Il soggetto non è più tentato dal miraggio della propria casa o destinazione, e compie invece l’esperienza della propria distanza da se stesso. Esso scopre che la lingua non gli appartiene più di quanto gli appartenga il vasto territorio psichico e percettivo nel quale ogni io si ricava un proprio dominio. E il testo poetico mette appunto in comunicazione quanto all’io è più interno – giacché la soggettività è un fatto di linguaggio – e quanto meno gli appartiene – giacché il linguaggio lo sovrasta da ogni lato. Il testo poetico è, sotto questo aspetto, la scoperta dell’estraneità del linguaggio, di ciò che in esso è più proprio e, insieme, più alieno. La natura è paradossale (unheimliche). Fare esperienza della poesia significa produrre sorprese conoscitive, strappare un’eco o una sonorità ai dialetti arcaici per sempre ridotti al silenzio, evocare l’inespresso delle lingue, compiere operazioni al di là dell’immediatamente comunicabile.
L’ideale classico è fondato su un’idea di norma; l’ideale moderno non ha modelli e deve produrli. Tutta la poesia moderna è appunto percorsa da un’intenzione euristica. Per interrogare le cose essa (e del resto anche la scienza) ha bisogno innanzitutto di interrogare il linguaggio. Le cose le incontra secondo la propria modalità costruttiva, al proprio interno, come sistema di lettere e di segni. Le incontra come mondo. Non ha per oggetto un mondo preformato (in ogni mondo preformato vede una retorica che si nasconde). La cosa della poesia – il suo oggetto – è il suo stesso dire, la sua enunciazione, la sua occasione storica e dialettica, un po’ come il «sogno di una cosa» non è poi nient’altro che una cosa del sogno. Ma con la dissoluzione dell’autorità delle tradizioni (del senso), solo il lavoro del linguaggio o una retorica riqualificata trova giustificazione. L’arte deve ormai inventare il proprio luogo, provare la propria necessità. E questa è forse l’eredità più decisiva che le avanguardie hanno lasciato alla nuova poesia. Del programma delle avanguardie ha un significato ormai soltanto storico l’idea o meglio la tentazione di un conoscimento assoluto. In verità non esiste una parola iniziale. Come non c’è mai un’ultima parola, così non c’è neppure una prima parola. La lingua è inoggettivabile: ci si costruisce in essa, ma non si dispone di essa. Come processo segnico essa è pura trascendenza, sistema illimitato di rimandi. E la poesia non tanto enumera il difetto delle lingue, che era per Mallarmé il difetto della pluralità, ma fa di questo difetto la sua condizione e la sua possibilità. E c’è poi un’altra tentazione delle avanguardie (che poté benissimo saldarsi con la prima) anch’essa divenuta improduttiva. È la tentazione dell’arte di superarsi come arte, di farsi organo della politica, precognizione del mondo. Fare dell’utopia un sensus communis, produrre una specie di sublime quotidiano, abolire le frontiere tra reale e immaginario: ecco alcuni spunti programmatici dominanti (indifferentemente) nel futurismo e nel surrealismo. Fu una ideologia che si impose in un contesto da attese rivoluzionarie (non importa in che modo captate) e che magari dovette servire a mantenere le passioni nella stessa temperatura degli avvenimenti (un poco come – nell’annotazione di Marx – al tempo della rivoluzione francese fu necessario travestirsi da antichi romani). Ma il fatto è che la politica non è il luogo dell’utopia, più di quanto l’utopia sia il luogo della politica. I loro campi strutturali sono diversamente orientati. Utopia e politica non sono né pensabili isolatamente, fuori dalla contingenza del loro rapporto, né reciprocamente riducibili. L’utopia ha una propria storicità o politicità interna. Essa non è esentata dalla dialettica. E la politica, a sua volta, ha una sua funzione utopica, ma si tratta di una funzione kantianamente regolativa, non già costitutiva. Sempre la politica avrà a che fare con il rischio radicale della storia (con la sua in componibile e insuperabile problematicità).
C’è stato insomma una caduta del pathos dell’avanguardia, quanto più si sono andate generalizzando le sue pratiche. Non hanno perso significato invece le sue tendenze formali profonde. La parola poetica infatti resta più che mai una parola improbabile in un mondo retto dalla necessità. La sua situazione storica mondiale (non importano ora le differenze tra un paese e l’altro) è costituita da un sistema comunicativo sempre più tecnificato e potente. E nel determinismo del comunicabile essa genera appunto dissonanze, istituisce libertà, introduce segnali provenienti da un’altra dimensione. Dal mercato si emancipa attraverso il mercato stesso. (Ci sono opere che si travestono da merci allo stesso modo che ci sono merci che si travestono da prodotti estetici). Merce e arte sono cioè in tensione all’interno stesso delle opere. C’è in verità un pensiero, che è poi il pensiero dialettico classico, che tende a fare della merce il senso dell’opera. Prodotti mercantili e prodotti non mercantili (o che tali pretendono di essere) sarebbero l’immagine derisoria e l’immagine sublime di una stessa assenza di verità. La merce direbbe il segreto dell’opera. Il mercato smaschererebbe le pretese della bellezza. Il criterio di verità con cui opera questo pensiero è quello di un’adeguazione al limite tra natura e cultura, sensibilità e ragione. Ed in effetti esso non rinuncia la principio di una ragione storica che dal fondo della preistoria attenderebbe di realizzarsi. Oggetto storico in questa chiave non è l’oggetto che ha dentro di sé il tempo, che è fondato sulla negatività (che ha per sfondo il non più e il non ancora), ma l’oggetto che tende alla propria forma, l’oggetto da ultimo in sé conciliato. La storicità non lascia aperto il divenire del mondo, sospeso il suo destino, indeterminate e ambigue le sue figure, ma è progressione di verità, superamento del negativo, compimento. Ciò che diverge ancor più essenzialmente è connesso. Il tutto è organicamente legato. Si tratti di una necessità severamente iscritta nell’ordine delle cose o – secondo la versione negativa della stessa dialettica – di una scommessa della ragione in cui sia in gioco la possibilità della ragione stessa. Dal punto di vista della dialettica classica, insomma, la storia o redime il passato – il tempo come difetto – o comporta un inabissamento del mondo. Il divenire è visto come un processo in cui si guadagna o si perde tutto. Anche qui (e siamo riportati agli anni delle avanguardie storiche) l’utopia o si realizza o è l’alibi della menzogna. Il criterio della possibilità è classicamente ancora quello della non contraddizione. Ma, andando al di là delle figure negative della dialettica, bisognerà oramai pensare a un’altra dialettica, non classica e non sistematica, a una dialettica aporetica e paradossale. Allora cambierà la struttura del problema. Non sarà più possibile leggere la storia come un piano di salvazione. La storia non avrà più figure ultime. I diversi piani dell’esperienza continueranno a modificarsi reciprocamente, ma i loro rapporti resteranno indecisi, non prefigurabili, aleatorii (la verità sarà oggetto di sospetto). La pluralità sarà la pluralità dell’evento, dell’incalcolabile, dell’imprevisto, non una pluralità promessa all’unità. E il rifiutarsi della poesia alle immagini conchiuse di mondo – il suo insistere ai margini dei sistemi comunicativi – sarà un modo di rivendicare il negativo, l’ambiguo, l’assenza di finalità. Poiché nessun ordine lo richiede, la poesia sarà l’ironia della cultura. Essa farà valere il possibile contro il necessario. Non annuncerà più nessuna totalità, ma proprio il tramonto di ogni totalità. E anziché essere depositaria di valori ideali (di cui permanga dubbia la realizzazione), al mercato porterà il paradosso di un valore antieconomico.
Saggio di Guido Guglielmi pubblicato nel n. 89 della rivista Nuova Corrente (1982).
“(…) un critico-teorico di grande spessore antistoricistico, che nelle sue analisi testuali ha sempre dato alla storia (e alla storicità) un’importanza fondamentale. La letteratura, e quella sua frazione più imponderabile che è la poesia, non si campiscono per lui in una bolla d’aria disancorata e vagante nei cieli dell’indicibile che nega il reale e la sua rugosa concretezza, ma possono essere comprese e decifrate solo all’interno della loro presenza e del loro ruolo nel geroglifico sociale. Sono parte del fare umano e della società, non astrazioni ineffabili. Sono tessere dell’immenso mosaico dei linguaggi che parlano nella storia e ne sono parlati".
Mario Lunetta, in Bollettario n. 39
Guido Guglielmi (1930 – 2002) è stato un critico e teorico della letteratura che è riuscito a coniugare il marxismo con i nuovi contributi della linguistica e dello strutturalismo. Da sempre tenace assertore delle avanguardie, ha collaborato con le più importanti riviste di settore. Ha pubblicato, tra gli altri, Manuale di poesia sperimentale, con E. Pagliarani, (Mondadori, 1966), Letteratura come sistema e come funzione ( Einaudi, 1967), Ironia e negazione (Einaudi, 1974). Il suo ultimo libro è L’infinito terreno. Saggio su Leopardi, (Manni, 2000).
Le precedenti puntate di questa “autobiografia letteraria” sono state dedicate a Gianfranco Ciabatti e a Giorgio Cesarano.
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