Absolute Poetry 2.0
Collective Multimedia e-Zine
Coordinamento: Luigi Nacci & Lello Voce
Redatta da:
Luca Baldoni, Valerio Cuccaroni, Vincenzo Frungillo, Enzo Mansueto, Francesca Matteoni, Renata Morresi, Gianmaria Nerli, Fabio Orecchini, Alessandro Raveggi, Lidia Riviello, Federico Scaramuccia, Marco Simonelli, Sparajurij, Francesco Terzago, Italo Testa, Maria Valente.
Nel 2007 San Marco dei Giustiniani ha dato alle stampe un volume, a mio parere, interessantissimo: Poesia surrealista italiana. Ho chiesto all’autrice, Beatrice Sica, se fosse disponibile a scrivere per AP un cappello introduttivo del suo lavoro e a fornirci un estratto del lungo saggio che precede l’antologia di testi - in particolare la parte dedicata al secondo dopoguerra e alle neoavanguardie. Ha accettato, molto gentilmente, e di questo la ringrazio.
(un’avvertenza: manca l’apparato di note per non appesantire troppo la lettura su schermo)
Poesia surrealista italiana traccia un percorso del surreale all’interno della nostra produzione in versi novecentesca, dando finalmente corpo a un’idea critica finora soltanto accarezzata cursoriamente o invece decisamente respinta: quella di un surrealismo poetico in Italia. In assenza di un movimento surrealista italiano paragonabile a quello francese, e quindi di un corpus criticamente accettato e riconosciuto a cui potersi rifare più o meno pacificamente, Beatrice Sica ha per la prima volta riunito in questa antologia testi che rispondono a un’ipotesi surrealistica come poteva essere praticata in Italia, tra le resistenze di una tradizione classicista e le controspinte razionalizzanti della grammatica e del canto della lingua italiana. Le poesie raccolte qui, anche se non sempre mostrano di liberarsi completamente dalle catene della saggezza italica, sono accomunate dall’abbandono al flusso automatico della parola e dalla ricerca del sogno, dell’inconscio, del delirio linguistico e dell’assenza di controllo formale, in modi ogni volta diversi e con risultati comunque notevoli. Si va dal 1909 al 1969, cioè dall’inizio dell’avventura futurista fino all’esaurirsi della spinta neoavanguardista, passando per l’esperienza dell’ermetismo. Precede i testi uno studio attento dei rapporti della critica italiana con il surrealismo francese, dalla nascita del movimento di Breton fino ad oggi. In esso si ripercorre per la prima volta interamente la storia dell’attrazione-repulsione verso le sollecitazioni surrealiste, facendo il punto sulle difficoltà di questa relazione e sulle sue implicazioni che vanno oltre il campo stretto della poesia ma investono il problema dell’identità culturale dell’Italia e delle sue più profonde radici.
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Dopo la guerra
Nel secondo dopoguerra, con la frattura creata dal conflitto e il tentativo di riassorbire il trauma bellico, il dibattito si sposta rapidamente sulla questione del realismo. Si abbandonano, in nome dell’impegno dello scrittore e della nuova estetica neorealista, le discussioni intorno al surrealismo per cercare di accogliere le istanze tematiche e ideologiche legate alla guerra e alla Resistenza. La sinistra internazionale considera chiusi i conti con l’irrazionalismo europeo, e anzi condanna il surrealismo considerandolo un movimento borghese e assimilandolo al trotzkismo politico.
Verso la metà degli anni Cinquanta sono rimasti in pochi a difendere contro il realismo il messaggio del surrealismo. Uno di questi è Luzi, che nel 1954 esprime così i suoi Dubbi sul realismo poetico: «una vera poesia realistica mi pare improbabile. La poesia ha, a mio avviso, un’unica probabilità di sopravvivere, un’unica giustificazione nel mondo moderno perduto dietro gli episodi, scisso in tante piccole e primitive mitologie sorte in mancanza di un mito, di una fede, di una convinzione: la sua forza di sintesi. La poesia respira un profondo bisogno di unità laddove la vita psichica e la vita organizzata degli uomini di oggi è estremamente frammentaria. La grande avventura della poesia moderna consiste infatti nel tentativo di ricostruire mediante il linguaggio quell’unità che il mondo ideale, pratico, espressivo degli uomini aveva perduto». L’analisi della frammentazione tra vita psichica e vita organizzata si richiama implicitamente al primo manifesto di Breton. La soluzione, cioè una poesia non realistica per ricostruire l’unità mediante il linguaggio, è la posizione classica dell’ermetismo.
Questa di Luzi è però una voce isolata. Il surrealismo è in crisi, non solo in Francia, e riceve anche da noi attacchi da più parti, dai più giovani come dai meno giovani, nel segno ora del rifiuto, ora della disillusione, ora della delusione. Nel 1957 sulle colonne del «verri» Umberto Eco recensisce impietosamente la nuova rivista di Breton «Le surréalisme, même», nata alla fine dell’anno precedente e condannata secondo lui inevitabilmente a costituire un’operazione nostalgica e revivalistica, con tutta la tristezza che si avverte nella maniera. Il surrealismo sarebbe ormai una imagerie di uso corrente, ridotto a formula e rintracciabile nella pubblicità e nella fantascienza che ne commercializzano l’eredità. «Ma ciò che commercialmente è dignitoso scade quando si ripropone come scoperta e creazione inopinata». Eco appoggia e legittima piuttosto la fantascienza contro il tentativo bretoniano di rilanciare il surrealismo; e conclude: «non chiediamo ad André Breton di mettersi a scrivere romanzi di S[cience] F[iction]. Ma di non aprire nuove stagioni del surrealismo (almeno in questi termini) questo sì, dobbiamo farlo».
Due anni dopo esce la prima edizione dell’antologia Il movimento surrealista curata da Fortini. Nell’introduzione l’avventura di Breton è vista come una conclusione più che come un inizio, e insieme all’esemplarità della vicenda si constata anche il suo fallimento di fronte allo sviluppo storico e al movimento della società contemporanea: «Noi non crediamo affatto alla validità di una ripresa di quei motivi e pensiamo anzi che la “sinistra” rivoluzionaria debba oggi avere proposte di cultura e di politica assai diverse da quelle della vecchia avanguardia e del surrealismo». Il discorso di Fortini è in chiave strettamente politica: il movimento bretoniano, dopo il fallito tentativo di convergenza con l’azione del partito comunista francese, sarebbe stato incapace di opporsi con successo alle spinte di oppressione sociale e di massificazione culturale della borghesia capitalista; sarebbe stato anzi inserito, suo malgrado e proprio dalle forze cui si opponeva, in quel processo e accettato e neutralizzato come qualcosa che non scandalizza più. L’eredità surrealista sarebbe da cercarsi dunque unicamente in alcune opere che hanno resistito al tempo e nel rigore intellettuale dei singoli.
Infine nel 1960 anche Bo, che nel surrealismo aveva creduto più di tutti, si rassegna a considerarlo ormai esclusivamente su un piano storico, e a vederlo come qualcosa di concluso. È un Surrealismo senza giovani quello di cui parla Bo: il suo vecchio padre fondatore, raccogliendo i pochi anziani rimasti e circondandosi ormai di pochi giovani soltanto di passaggio, si ostina a riproporre uno scandalo che non è più tale, nella nuova società, e che non va oltre il pittoresco e la maniera. «È meglio lasciar morire una rivoluzione liberamente, quando è l’ora, che non ostinarsi a farla sembrar viva e attuale, col trucco e con le cerimonie. | Il silenzio sarebbe molto più utile dei riti ridicoli e grotteschi e chiuderebbe degnamente una stagione gloriosa dell’intelligenza».
La neoavanguardia e il parasurrealismo
Alla fine degli anni Cinquanta e all’inizio dei Sessanta non pare esserci più spazio neppure in Italia per il surrealismo. Il nostro paese si trova a vivere con ritardo i problemi posti dall’incontro tra un’azione rivoluzionaria marxista e un’attività intellettuale di avanguardia, che erano stati affrontati per la prima volta dai surrealisti. Ma sul piano politico i punti di riferimento adesso sono altri: si fanno piuttosto i conti con l’engagement proposto sempre in Francia da Jean-Paul Sartre (che infatti, insieme a Guy Debord e all’Internazionale situazionista, è alla base del giudizio fortiniano del ’59 sull’avventura surrealista come processo ormai concluso); mentre sul piano letterario e artistico, dopo l’esaurirsi della spinta neorealista e resistenziale e volgendo al termine anche il tentativo neosperimentale di «Officina», i giovani della neoavanguardia pongono al centro della loro riflessione e del loro lavoro i problemi della comunicazione e i sistemi linguistici, sulla spinta anche di discipline come la semiotica, lo strutturalismo, la sociologia. Il surrealismo, anche per un’operazione del genere, non può più servire, e se alcuni procedimenti di scrittura non possono non richiamarlo, o meglio non possono non appoggiarsi alle sue conquiste, esso non rappresenta certo più un modello, e lo si nega infatti come tale, o semplicemente lo si tace. L’onirismo, la liberazione dell’inconscio, l’automatismo psichico, il delirio analogico dei surrealisti costituiscono ora semplicemente delle tecniche di composizione disponibili allo scrittore, e come tali sono trattati, mentre l’attenzione si sposta sui contenuti: contenuti non narrativi o sentimentali ma linguistici, e in quanto tali veicoli di ideologia. «Poiché tutta la lingua tende oggi a divenire una merce, non si può prendere per dati né una parola né una forma grammaticale né un solo sintagma», scrive Alfredo Giuliani nell’introduzione alla prima edizione dei Novissimi (1961).
È significativo in quell’antologia il silenzio totale sull’esperienza surrealista, sia nell’introduzione che nel commento ai testi che negli scritti degli altri “novissimi” posti in appendice al volume; mentre del surrealismo affiorano tracce per esempio in alcuni momenti onirici di Giuliani, nell’automatismo visionario di Sanguineti, nella caoticità delle immagini di Balestrini. Soltanto nella prefazione alla seconda edizione del 1965 il surrealismo viene recuperato: implicitamente, quando il discorso di Giuliani tocca la follia, il «fascino dell’analogia» e le «assurde tecniche dell’alienato»; esplicitamente, quando viene nominato insieme ad altri movimenti dell’avanguardia storica come fonte della tecnica delle libere associazioni. «Questi metodi non hanno esaurito la loro funzione» scrive Giuliani; ma prima aveva anche detto: «Il non-senso è diventato un materiale “iconico”, come le madonne e gli angeli delle antiche Annunciazioni».
La cauta e parziale apertura che si avverte in un secondo tempo nella neoavanguardia risente certamente dell’esperienza della rivista «Malebolge» e del cosiddetto gruppo parasurrealista, appendice reggiana del Gruppo 63. «Malebolge» nasce nel 1964 come «rivista di letteratura» e diviene il punto di incontro di diverse intenzioni ed esperienze creative che si riconoscono da ultimo nell’etichetta del parasurrealismo, cioè di un recupero critico del surrealismo storico condotto attraverso precisi filtri ideologici. Si tratta di un’operazione circoscritta sia geograficamente che cronologicamente (la rivista pubblica pochi numeri nel breve arco di due anni), ma che fu a suo modo molto intensa.
Protagonisti del gruppo, principali animatori del dibattito intorno al surrealismo e fautori di un recupero dell’esperienza bretoniana furono soprattutto Giorgio Celli e Adriano Spatola, insieme a Corrado Costa. Per Celli si tratta di «operare una sistematica utilizzazione in chiave ironica dei dati forniti dall’analisi», dal momento che nella moderna società di massa i dati dell’inconscio vengono usati a scopi commerciali e tradotti in formule ad uso della pubblicità e del controllo delle masse. Scrive Celli: «Il giuoco da noi proposto […] cerca la libertà attraverso la forza liberatrice dell’ironia, ironia che dovrà essere sempre programmaticamente eversiva in rapporto alla nostra attuale condizione di animali da laboratorio cui ci induce l’enorme psicosi sperimentale del nostro tempo».
In un mondo che ha vissuto gli orrori della bomba atomica e dell’olocausto, e cioè dove l’incubo è entrato nella vita di tutti i giorni, la scrittura poetica può attuare questo tipo di ironia semplicemente con la giustapposizione immediata e casuale degli elementi del quotidiano, con la loro registrazione fredda e meccanica, non affidandosi più alla presunta verginità di un inconscio individuale da liberare, come voleva Breton, ma ricorrendo programmaticamente a una mirata operazione di montaggio. Recentemente, al convegno che ha richiamato a Bologna Il Gruppo 63 quarant’anni dopo, Celli ha sintetizzato così la direzione di quelle ricerche: «Volevamo, insomma, rivisitare da filologi, e riprodurre da falsari, la poetica e i metodi del surrealismo storico, elevandolo a parasurrealismo, ed evocandolo come un fantasma prefabbricato, sì, ma ancora in grado di stupire, e, se mai, di provocare. Praticavamo, per fare un esempio, la scrittura automatica simulandone opportunamente i risultati, non ascoltando, come prescriveva Breton, il dettato inconscio, ma semplicemente facendo un’operazione di montaggio, combinando e ricombinando».
A quel tempo, mentre le cose ancora si stavano facendo, Celli indicava nella poesia di Spatola «una delle proposte più interessanti per il recupero di alcuni aspetti del surrealismo storico, recupero che […] deve fondarsi su una sistematica utilizzazione e razionalizzazione non riduttiva dei dati dell’inconscio». Spatola avrebbe «affrontato con lucida coerenza il problema di un recupero – la dimensione “macabro-ironico-contestataria” del surrealismo storico – e di un superamento di questa dimensione attraverso l’uso di modelli poetici e filosofici accuratamente eteronomi ad essa».
Spatola, che si era laureato in estetica con Luciano Anceschi con una tesi sul surrealismo, è stato forse il più infaticabile sostenitore della necessità di recuperare da Breton l’idea della poesia come protesta, e ha creduto fortemente nella riattualizzazione del messaggio surrealista in questo senso. «Lo scopo della poesia è oggi quello di provocare nel lettore una inquietudine ideologica, e di mettere in crisi la geometria euclidea della sua visione del mondo. […] Una poesia come anarchia sistematica, e come utopia escatologica, nell’ambito di una progressiva identificazione di sogno e realtà» (le sottolineature sono dello stesso Spatola).
Spatola divideva i suoi interventi e il suo impegno su più fronti. Sul «verri» per esempio recensisce nel 1964 l’antologia dei Poeti surrealisti spagnoli uscita l’anno precedente a cura di Vittorio Bodini, e coglie l’occasione per aprire la questione del surrealismo rispetto all’Italia. Su «Malebolge» invece il suo discorso ha modo di personalizzarsi e farsi più radicale, puntando sul movimento parasurrealista e chiarendone al tempo stesso scopi e metodi: «Il parasurrealismo è surrealismo al quadrato: un surrealismo che esce dal bagno nella cultura di massa, dove ha visto la conferma e la distruzione di sé nell’uso che ne hanno saputo fare le élites tecnologiche». E ancora: «bisogna che sia sempre più chiaro che il riferimento a una interpolazione parasurrealista prevede una revisione critica non soltanto dei modelli tecnico-formali, ma anche di quelli ideologici».
Su «Malebolge» Spatola recensiva anche alcune scritture poetiche di quegli anni che gli parevano un valido esempio di surrealismo in chiave riattualizzata, come Aprire di Antonio Porta o Come si agisce di Nanni Balestrini. E infine avvicinava al surrealismo anche esperienze come quella del Gruppo 70 (ma Lamberto Pignotti precisava a sua volta: «Solo che oggi, come avviene appunto nell’ambito del gruppo ’70, è possibile sì ancora urlare alla maniera dei futuristi, dei dadaisti e dei surrealisti, ma solo coi volumi della teoria della comunicazione e dello strutturalismo sotto il braccio»). Infine, Spatola insisteva su un recupero dell’esperienza surrealista anche al di fuori del versante strettamente letterario: per esempio nei manifesti che affiggeva sui muri di Bologna. Nella Proposta per un manifesto politico del 1965 spiega che «soltanto un uso contemporaneo del surrealismo permette un intervento attivo non patetico ma violento e rivoluzionario sul mondo quotidiano assurdo, anormale nella sua normalità»; e ritiene che «parlare di “parasurrealismo” sia estremamente esatto».
Un ampio dibattito e una verifica dell’attualità del surrealismo e delle presenze parasurrealiste nel panorama italiano trovano spazio sul numero di «Malebolge» intitolato Surrealismo e parasurrealismo, ospitato dalla rivista «Marcatrè» nel 1966. Qui vengono tradotti alcuni esempi della giovane poesia surrealista francese e raccolti alcuni testi recenti degli italiani vicini al parasurrealismo; nell’ultima parte poi si procede a un confronto fra diverse posizioni. Tra le voci simpatizzanti si può ricordare qui quella di Gillo Dorfles, favorevole al parasurrealismo come superamento di ogni «ritorno di fiamma realista», per l’affermazione di un’«arte che sia ad un tempo razionale, irrazionale, iperrazionale» («E le nuove ricerche linguistiche? i gerghi tecnici? i gerghi critici? le interdisciplinarietà operanti solo sulla carta? Ecco, appunto, dove un neosurr. può intervenire proficuamente. Per domare i morfemi riottosi, per amalgamare le serie sintagmatiche entro nuove unità significanti»). Ma soprattutto è molto significativa la presenza di Vittorio Bodini, che su quel numero della rivista pubblica anche Due poesie per il surrealismo (sono Night e Pseudosonetto) come testimonianza dell’«accentuazione in senso automatico, o semiautomatico, di una tentazione surrealista» riconoscibile da tempo nei suoi versi.
Tra tutte le presenze ospitate su «Malebolge» in «Marcatré», Bodini è il più vicino per ragioni biografiche all’ermetismo, al quale si sentiva legato, se non per il lontano passato dei suoi esordi, certamente in senso generazionale. Nel suo scritto, venendo brevemente a parlare del lavoro antologico sui surrealisti spagnoli, confessa di aver indagato le reazioni di un’altra poesia nazionale al surrealismo francese proprio in una taciuta chiave italiana, col rammarico dei silenzi e dei ritardi della sua generazione: «La mia introduzione, la mia scelta rappresentano per me un recupero sul piano storico di quello che considero un conto scoperto della mia generazione». Quanto al tentativo di quegli anni di riattualizzare il messaggio surrealista impegnandosi in una nuova sperimentazione, Bodini è favorevole proprio perché il surrealismo rappresenta per lui l’unico movimento autenticamente rivoluzionario, e anche «quello che più superficialmente ha sfiorato la pelle della nostra letteratura». E aggiunge: «Del che l’Italia letteraria dovrà pentirsi, come già le è accaduto col romanticismo. (Cinque anni fa in un caffè romano chiesi a bruciapelo ad Antonio Delfini perché non c’era stato un surrealismo da noi. “Perché l’italiano ha la coda di paglia” mi rispose. Occorre dire che mai come nel ventennio quell’appendice fu più prolissa e fastidiosa)».
Dopo essere stata ospitata su «Marcatré», «Malebolge» esce con altri due soli numeri, e l’esperienza del parasurrealismo termina nel giro di un anno. Il gruppo si scioglie, i suoi componenti si disperdono; soltanto il giovane Ferdinando Albertazzi, che si era unito in un secondo momento, continua per un certo tempo a cercare contatti con il neosurrealismo figurativo e a occuparsi di Breton, prima di imboccare, come gli altri, una diversa strada.
Surrealismo italiano?
Se la proposta parasurrealista si esaurisce in breve tempo, i conti con il surrealismo vengono però riaperti da critici e poeti della generazione di Bodini che erano stati vicini all’ermetismo o ne avevano fatto direttamente parte. Si comincia a interrogarsi ora sui modi surrealisti della nostra poesia novecentesca e sull’esistenza di una linea italiana leggibile appunto come surrealista.
Contini è il primo, alla fine degli anni Sessanta, a parlare di «un vero e proprio surrealismo italiano» a proposito di Libero de Libero e dei suoi nessi di immagini eccentriche espresse in ritmi sincopati. L’altro nome avvicinato al surrealismo nella Letteratura dell’Italia unita è Alfonso Gatto, per il quale la critica aveva coniato il termine di «surrealismo d’idillio» fin dal 1937 con un articolo di Giansiro Ferrata. Nei versi di Gatto, giocati sul contrasto fra immagini vertiginosamente analogiche da una parte, e regolarità sintattica e cantabilità dei ritmi dall’altra, Contini vede l’esempio «di un surrealista che, diversamente dai surrealisti veri e proprî, indulge di rado alla frase nominale e all’immediatezza in largo senso interiettiva e onomatopeica, istituti che la cultura poetica italiana aveva infatti consumati nel futurismo e nel movimento di “Lacerba”».
Tra gli anni Sessanta e Settanta è stato però Jacobbi a tentare più da vicino una storia di un latente surrealismo italiano, svolgendo come un filo che legherebbe tra loro i diversi tentativi – e i fallimenti – della nostra poesia di avvicinarsi al surreale e di scendere nelle zone oscure dell’inconscio. Si è già detto della sua rilettura della poesia futurista a specchio del surrealismo nell’antologia del 1968. Ma già nel 1965, nelle annotazioni sul presente fatte in Secondo Novecento, Jacobbi aveva tentato «un abbozzo di storia della nostra segreta e sempre contrastata avanguardia (contrastata spesso dagli stessi poeti)». Nel 1969 le ragioni di quel dissidio spesso interno agli stessi poeti vengono chiarite ancora meglio in un intervento che delinea Tempi e ragioni dell’ermetismo, e che è forse il più organico sulla questione.
Jacobbi riferisce il ritardo italiano nei confronti del surrealismo prima di tutto a quello ancora precedente nei confronti del romanticismo (il nostro peccato originale, dunque) come già aveva detto Bodini su «Malebolge». Inoltre spiega il nostro ritardo anche con il ripetersi, in diversi momenti della nostra storia culturale e letteraria, della «congiura del Buon Senso, del perbenismo nazionale», che fanno sì che «da noi tutto si svolga nei binari prestabiliti di un “sistema” addirittura più antico del capitalismo», e introiettato dagli stessi scrittori. Quella «coda di paglia», in altre parole, di cui Delfini pochi anni prima aveva accennato a Bodini nel caffè romano. Secondo Jacobbi nei testi letterari questi limiti, a parte poche felici eccezioni come quella di Campana, si sarebbero tradotti nella tendenza tutta italiana a ricondurre sempre in qualche modo l’irrazionale nei binari del razionale, e a contenere il surreale in schemi metrici prestabiliti che rendono impossibile lo scatenamento di una scrittura veramente automatica al modo di Breton: esemplare in questo senso la poesia di Onofri.
In tale contesto l’ermetismo, con la sua attenzione al messaggio surrealista, sarebbe stato il tentativo più ardito di superare questo ostacolo quasi naturale che gli scrittori italiani si porterebbero dentro. Tre nomi, indicativi di tre momenti successivi, starebbero a dimostrare la validità della proposta ermetica leggibile in senso surrealista: Luzi, negli anni Trenta, con i suoi sconfinamenti dal simbolo nel surreale; Gatto, nel decennio successivo, con l’impegno etico inserito in stilemi surrealisti; e Bigongiari, nella fase post-resistenziale, come adeguamento alle nuove proposte della poesia «sino a una vera anticipazione della neo-avanguardia».
Bigongiari tra l’altro riprenderà pochi anni dopo questa triade di nomi in un intervento su Il surrealismo e l’Italia in cui parla dell’ermetismo come di «un movimento, di avanguardia non codificata da alcun manifesto, […] che trova il proprio ambito storico proprio tra il surrealismo e l’informale: e deve all’uno quanto poi propone all’altro». Bigongiari vede nella propria proposta ermetica un’anticipazione in certo modo della neoavanguardia, come già aveva detto Jacobbi: «forse la posizione, rispetto all’informale, di alcuni poeti “novissimi”, e mi riferisco soprattutto a Sanguineti […] è analoga ma non necessariamente uguale alla nostra posizione rispetto al surrealismo». Fino alla conclusione sul presente, estrema: «Ma certo […] tutto l’interesse ridestato per i problemi del linguaggio dal surrealismo, noi vediamo oggi che è al centro del fatto stesso poetico come farsi, allo stesso modo che il dato è stato analizzato vichianamente e psicanaliticamente come darsi, già nell’ermetismo come nello strutturalismo e come nell’interesse preminente per i problemi linguistici da parte, per esempio, dell’attuale gruppo di “Tel Quel”».
Per Jacobbi spingere i risultati del lavoro del surrealismo ermetico fin nei territori della nostra neoavanguardia ha il senso di mantenere vivo il richiamo al messaggio surrealista bretoniano che i giovani – gruppo parasurrealista a parte – tendevano generalmente a negare. Surrealismo dunque per l’Italia non solo come rifiuto del classicismo sempre ritornante e di tutti i suoi pericoli, come salutare ricaduta in un’ipotesi romantica per continuare a ricordare l’importanza e il peso dei processi irrazionali in un mondo che si vuole razionalissimo. Ma anche surrealismo, secondo Jacobbi, contro l’errore della stessa neoavanguardia, che si pretendeva scientifica e seppelliva il sentimento sotto le coltri della tecnologia, cioè in un vicolo cieco: «Una poesia di sentimenti dovrà sempre trovare il suo punto di ragione; ma una poesia nata da un calcolo dovrà ad un certo punto scoprire il suo pathos, e non potrà più cercarlo nei sentimenti, dovrà provocare l’abisso».
Jacobbi tornerà ancora a parlare di surrealismo per l’Italia, ritornando fino alla fine su un’idea critica a lui particolarmente cara. L’ultimo suo intervento risale al 1980, e tratta Di un surrealismo non francese, cioè di un vero e proprio «surrealismo all’italiana», distinguendo dal punto di vista tecnico i diversi usi della parola in Gatto e in Bodini. Ma l’ultima voce che sostiene l’esistenza «di una costellazione di surrealisti italiani (tutti emarginati, solitari, monomaniaci, disgraziati, ciascuno per proprio conto), con differenze profonde fra surrealismo e surrealismo, ma con il medesimo fondamento archetipico», è quella di Macrì, che in una nota a un intervento su Delfini stampato nel 1990 fa i nomi di cinque autori vicini o appartenenti alla cosiddetta «terza generazione» e uniti da una comune matrice surrealista. Essi sarebbero dunque: Bodini, portatore di un surrealismo ispanico; lo stesso Jacobbi, poeta in proprio e vicino all’area brasiliana; Bigongiari, «surrealista ermetico»; Raffaele Carrieri; e soprattutto Emilio Villa, «surrealista di tipo neoavanguardistico». Ma quell’indicazione non ha modo poi di approfondirsi, né in quella sede né altrove.
Gli ultimi anni
Dopo la scomparsa di Bodini e di Gatto già negli anni Settanta, poi di Jacobbi e di Spatola negli anni Ottanta, nel corso degli anni Novanta sono venuti a mancare anche Contini, Costa, Bigongiari, Macrì, e nel nuovo secolo Bo, Villa, Luzi: cioè progressivamente tutti quelli che, in modi anche molto diversi, avevano rappresentato o difeso un’idea surrealista per l’Italia. Dopo di loro nessuno ha più creduto in un surrealismo poetico da ritrovare o da perseguire nel nostro paese, tanto che oggi è diventato possibile storicizzare a sua volta quell’idea surrealista che nel tempo ha nutrito poeti e critici italiani dei più diversi, e spesso opposti, orientamenti.
Se oggi non si fa più un caso del surrealismo come di un motivo ispiratore del fare poetico, non è però solo per l’assenza di chi fu protagonista di quel dibattito in Italia, o per semplice mutare di gusto e avvicendarsi di stili meno sensibili al messaggio bretoniano. È vero che tutto il panorama circostante è profondamente cambiato. Si sono avverati i gridi d’allarme di chi temeva l’annullamento nella società dei consumi del potenziale rivoluzionario promosso da un movimento come quello di Breton: le tensioni dialettiche che vivevano i surrealisti e poi la nostra neoavanguardia tra poesia, politica, produzione, sono state riassorbite nel grande mercato globale, provocando l’inveramento della stessa tradizione dell’avanguardia nella condizione postmoderna. Nella poesia italiana, dopo l’ondata di neoromanticismo e neorfismo seguita al Gruppo 63, si è verificata una nuova “crisi di realtà” ed è comparso anche un Gruppo 93, ma questi giovani non hanno mai pensato di riferirsi al surrealismo né come fatto tecnico né come modello ideologico e culturale. Lello Voce ha spiegato recentemente quali fossero i loro punti di riferimento: l’oralità di Pagliarani, l’opera-poesia di Balestrini, la poesia gridata sul palco di Vicinelli, Costa e Spatola (in una fase successiva al parasurrealismo), e cioè fatta secondo una dimensione performativa che animasse i versi fuori della pagina scritta, nel nuovo universo «intermediale». I problemi erano altri («Noi non volevamo interrompere la comunicazione, noi quella comunicazione la volevamo ripristinare»), e diverso era il punto di partenza rispetto a quello delle avanguardie storiche e della neoavanguardia: «noi non potevamo essere un’Avanguardia, non avevamo una filosofia della storia che ce lo permettesse, dunque non avevamo una direzione, un inizio e una fine, un davanti e un dietro, non avevamo un mondo bipolare, ma globale, non avevamo la Rivoluzione ma (poveri noi!) il Pensiero Debole».
Eppure anche nel mutato contesto globale il surrealismo sembra ad alcuni poter costituire ancora un valido punto di riferimento per far fronte alle sfide poste dalla globalizzazione e dai nuovi rapporti centro-periferia. Lanfranco Binni ha recentemente ristampato l’antologia fortiniana Il movimento surrealista, alla quale si era già affiancato nella seconda edizione del 1977, e l’ha corredata ora di una Post-fazione faziosa, per insistere e ricominciare, dove legge in senso propositivo il pensiero dell’ultimo Fortini, che in realtà negli anni Settanta sosteneva ancora la necessità di «Superare definitivamente il Surrealismo e il suo errore antropologico». Secondo Binni invece «Sulla linea del sincretismo surrealista è oggi possibile sviluppare “poetiche” di presenza consapevole di sé e dei rapporti di relazione». Ancora in Potere surrealista (2001) lo stesso Binni ha scritto: «Si potrebbero rintracciare i fili dispersi di una trama surrealista di seconda generazione, collegando esperienze recenti, in corso e a venire. Costruire una rete di viaggiatrici e viaggiatori attraverso i mondi, nello spazio e nel tempo, a lanciarsi messaggi e semplici segnali, a proseguire ricerche rimaste interrotte o proseguite in silenzio. A segnare su una mappa bianca e trasparente le tracce resistenti e venture. A rivoltare parole, concetti e relazioni. A liberare istinti e saperi profondi».
Ma soprattutto i conti con il surrealismo non si possono considerare del tutto chiusi se si guarda alle riletture critiche del Novecento, e in particolare della figura di Alberto Savinio, che recentemente due esponenti della neoavanguardia, un tempo “novissimi”, hanno proposto.
Nel 1996 Edoardo Sanguineti ha partecipato al convegno a Roma su Letteratura italiana del Novecento. Bilancio di un secolo, con una relazione dal titolo Le linee della ricerca avanguardistica, in cui riconduce le linee di tale ricerca proprio al surrealismo. Ma non al surrealismo bretoniano, che viene introdotto nel discorso solo in un secondo momento e in sordina, senza mai nominare direttamente Breton; bensì a un surrealismo come quello del nostro Savinio. Sanguineti cita in particolare un testo di Savinio del 1947, intitolato Fine dei modelli, e lo pone all’inizio di una sua personale biografia intellettuale, a marcare indelebilmente il suo percorso (anche al recente convegno bolognese su Il Gruppo 63 quarant’anni dopo Sanguineti ha richiamato quel testo come l’impulso primo, ricevuto in giovane età, che lo avrebbe portato ad andare contro i «modi prescrittivamente modellizzanti» della tradizione).
Nominare Savinio a proposito del surrealismo comporta quasi inevitabilmente richiamare anche le parole – citate infatti da Sanguineti al convegno di Roma – con cui il fratello di De Chirico prendeva le distanze dal movimento francese, e che sono note:
il surrealismo per quanto io vedo e per quanto so, è la rappresentazione dell’informe ossia di quello che ancora non ha preso forma, è l’espressione dell’incosciente ossia di quello che la coscienza ancora non ha organizzato. Quanto a un surrealismo mio, se di surrealismo è il caso di parlare, esso è esattamente il contrario di quello che abbiamo detto, perché […] non si contenta di rappresentare l’informe e di esprimere l’incosciente, ma vuole dare forma all’informe e coscienza all’incosciente.
Sanguineti, dunque, dopo i silenzi giovanili («È vero, ma in quel periodo il surrealismo non era il mio punto di riferimento fondamentale», ha dichiarato in un’intervista del 1993) torna ad appropriarsi del surrealismo, ma lo fa sotto l’ombrello saviniano, cioè proponendone una versione razionale, per così dire, razionalizzata, non oscura, ma geometrica, che – dice – «in breve, possiamo inscrivere sotto l’etichetta di metafisica, se non vogliamo, come sarebbe anche più giusto, con le cautele del caso, che si sanno, discorrere di surrealismo italiano».
Savinio funziona a questo punto da trampolino per lanciarsi in più direzioni, da vero e proprio passe-partout. Sanguineti può infatti così, in sordina, aprire al surrealismo propriamente detto, francese e non italiano, appropriandosi del suo messaggio in maniera non dirompente, senza gli stupori o gli scandali che comporterebbe una palinodia o una revisione critica vera e propria: «Il punto è davvero qui, nella liquidazione dei modelli, nel rifiuto precisamente anarchico per qualunque “archìa”, comunque articolata e argomentata, in nome della rivolta e, per dirla alla maniera surrealista, di un certo momento e di una certa fase, almeno, e non all’italiana, certamente, “al servizio della rivoluzione”». Inoltre Sanguineti rilancia la sua Poesia italiana del Novecento ricollocandola in questa linea di anarchia e libertà, non solo «tra liberty e crepuscolarismo, tra futuristi ortodossi e futuristi eterodossi», ma anche «tra metafisici e surrealisti». E infine riapre al presente: «Oggi, che si vive di “post”, si ha veramente la sensazione, o almeno io la provo, che […] in questa situazione emblematicamente crepuscolare, nuovamente si risenta, ancora confusa, forse, e timida, una qualche voglia, o bisogno, di praticare un progetto contestativo, diciamo libertario».
Non è questo l’unico intervento in cui si riaprono i termini della questione surrealista. Soltanto un anno prima, nel 1995, Sanguineti aveva pubblicato Per una critica dell’avanguardia poetica in Italia, dove la conclusione è analoga:
Le ragioni dell’avanguardia, per noi, avranno da ristrutturarsi, ad ogni modo, a partire da una spietata critica della ragione poetica dell’avanguardia medesima, poiché sono ancora tutte aperte le due questioni cui diede forma precisa l’ultima delle avanguardie storiche, settant’anni or sono, nel nome dell’attività surrealista, in base al rapporto con Marx e al rapporto con Freud, a livello ideologico e linguistico. Il problema, allora come oggi, e oggi certamente più che allora, è quello di sviluppare a fondo le pulsioni anarchiche che sono alla radice, inequivocabilmente, di tutta la grande antipoesia di questo secolo che muore, portando tali pulsioni dal terreno della rivolta al terreno della rivoluzione. Fu questo, oggettivamente, anche il significato delle nuove e nuovissime avanguardie, nei già lontani anni cinquanta, e questo fu il nodo reale delle loro poetiche e delle loro speranze. Perché si tratta pur sempre, come si diceva anche allora, e come sarebbe bene tornare a dire anche oggi, io credo, di cambiare la vita, e di modificare il mondo.
Anche in quell’intervento, non a caso, Breton non viene mai nominato direttamente, pur essendo all’origine di quella iunctura Marx-Rimbaud con cui Sanguineti chiude il suo discorso: «“Transformer le monde” a dit Marx. “Changer la vie” a dit Rimbaud. Ces deux mots d’ordre pour nous n’en font qu’un» (Breton, Position politique du surréalisme).
Accanto a Sanguineti anche Giuliani ha ricordato recentemente Savinio. Nella prefazione del 2003 alla nuova edizione dell’antologia dei Novissimi scrive : «Mi sentivo circondato dall’orizzonte che Alberto Savinio (il visionario ragionevole) aveva già disegnato nella Fine dei modelli, un testo del 1947. […] In quel suo orizzonte si accomodava la mia convinzione» (le stesse parole le ha poi ripetute al convegno bolognese per i quarant’anni del Gruppo 63). Ma Giuliani ha usato Savinio anche in modo più forte, per compiere un vero e proprio ridimensionamento del surrealismo bretoniano nello scacchiere novecentesco. Nell’introduzione alla ristampa del 1995 di Hermaphrodito e altri romanzi, Giuliani mette l’accento sugli Chants de la mi-mort come testo capitale di tutte le avanguardie che si irradiarono da Parigi: gli Chants, di cui lo stesso Apollinaire si ricordò componendo La jolie russe; Parigi, da cui si lanciò nel mondo lo stesso futurismo. Il discorso, preceduto da varie appendici – persino il futurismo italiano è introdotto fra parentesi – si rovescia subito in una cascata di proposizioni attributive che allontanano presto dalla già rapida menzione del surrealismo, citato per altro soltanto in veste di epigono rispetto agli Chants: «Andrea [De Chirico] si trasferì a Parigi non ancora diciannovenne, entrando così in quel magico spazio-tempo che aveva appena cominciato a esistere, e che per circa vent’anni produsse e nutrì tutto il “nuovo”, tutte le avanguardie (l’italiano futurismo si lanciò nel mondo da Parigi), tutti i ribaltamenti novecenteschi che contano. Lì nacquero, anticipando dadaismo e surrealismo, Chants de la mi-mort, i capricci della semimorte, dove l’universo s’inabissa, esplode la crisi degli ordini umani, l’assurdo esulta e balla, il terribile si manifesta nel ridicolo, la nostalgia desidera se stessa, l’anima si fa coraggio dicendosi addio».
Alla fine il cuore dell’avanguardia viene spostato nel romanticismo, un romanticismo di marca saviniana, di tipo metafisico, che finisce per inglobare lo stesso surrealismo: «Si pensa mai al romanticismo delle avanguardie? E al romanticismo di Savinio? [...] Romanticismo è anzitutto metaphysica naturalis: gusto dell’assurdo, deformazione della realtà, inversione dei valori, umorismo nero, magismo, surrealismo». Fino a strappare al surrealismo, senza più nominarlo, la stessa psicanalisi attraverso Savinio: «Romantico […] per lui vuol dire “sguardo nell’interno”. Se è così, come non vedere la stretta affinità tra romanticismo e psicanalisi?».
Con tali premesse l’operazione saviniana di dare forma all’informe e coscienza all’incosciente non trova la sua ragione neanche più in un surrealismo all’italiana, cioè in una correzione nostrana ai primi dati del surrealismo bretoniano, bensì in un originale connubio tutto saviniano di romanticismo e psicanalisi. La frase di Savinio «tutta la mia vita, tutto il mio lavoro sono una scarica di materiale psichico» viene così postillata da Giuliani: «Prendiamolo alla lettera. È un punto significativo. Di qui scaturiscono i suoi impulsi figurali, la malinconia dei mostri, lo ‘strano’, il simbolismo infantile che romanticismo e psicanalisi restituiscono alla sua poesia. Tanto è persuaso di non patire rimozioni, che si affida così alle sequenze impensate e agli spezzoni sregolati dello spettacolo mentale, come alle alchimie e ai collages della memoria, senz’altro proposito che dar loro una forma».
Beatrice Sica
7 commenti a questo articolo
POESIA SURREALISTA ITALIANA
2008-09-30 14:24:38|di ag
interessante, anche per il poco materiale che esiste, lucida e fornita di dati la presentazione di B.Sica. però, a parte il parasurrealismo con le sue particolarità, non mi pare che in Italia ci sia stato un surrealismo. certo tendenze, intrecci, letture più o meno influenti nella scrittura di qualcuno, però poi il ’surrealismo’ -noi tra realismo e varie avanguardie, ma non quella surrealista- non è che sia stato così decisivo. importante mi sembra comunque l’antologia, interessante sarebbe leggerne i testi.
un abbraccio
alessandro ghignoli
POESIA SURREALISTA ITALIANA
2008-09-27 16:57:19|di giusto misiano
chiedo all’autore se nel libro viene menzionato o accennato qualcosa sulla figura di Jacques Vaché e se Dino Campana è ,o non è il precursore del surrealismo Italiano considerando la data dei Canti Orfici (1913 o 1914)
POESIA SURREALISTA ITALIANA
2008-09-27 12:09:37|di giusto misiano
La nostra bocca è più secca delle spiagge solitarie; i nostri occhi girano senza mèta,senza speranza. ...Sono morte le città che non vogliamo più amare ...Ci hanno detto che laggiù c’erano valli meravigliose. ===Il cristallo trasparente da LES CHAMPS MAGNÈTIQUE -Andrè Breton-Fhilippe Soupault-autunno1919
POESIA SURREALISTA ITALIANA
2008-09-26 16:15:29|di lorenzo
al paragrafo sul "surrealismo in crisi", con l’esemplare sequenza Eco 1957 - Fortini 1959 - Bo 1960 aggiungo una curiosità, in consonanza: pare che in una recensione al libro "Chaplin e la Critica" (Glauco Viazzi, 1955, Laterza), si leggesse: "Imperdonabile l’inclusione del saggio barricadiero ed enfatico firmato da Aragon".
ciao
lorenzo
POESIA SURREALISTA ITALIANA
2008-09-26 11:41:53|di lnacci
ps:
Gli autori antologizzati sono: Dino Campana, Ardengo Soffici, Giovanni Papini, Aldo Palazzeschi, Massimo Bontempelli, Alberto Savinio, Carlo Carrà, Giuseppe Raimondi, Bruno Corra, Mario Carli, Farfa, Paolo Buzzi, Sebastiano Carta, Corrado Govoni, Arturo Onofri, Girolamo Comi, Alfonso Gatto, Libero De Libero, Mario Luzi, Andrea Zanzotto, Raffaele Carrieri, Piero Bigongiari, Ruggero Jacobbi, Antonio Delfini, Vittorio Bodini, Emilio Villa, Edoardo Cacciatore, Alfredo Giuliani, Elio Pagliarani, Edoardo Sanguineti, Antonio Porta, Nanni Balestrini, Adriano Spatola, Giorgio Celli, Corrado Costa, Amelia Rosselli, Giuseppe Guglielmi, Gian Pio Torricelli, Giulano Scabia, Ferdinando Albertazzi.
POESIA SURREALISTA ITALIANA, compratelo e non vi deluderà!
2008-09-23 14:46:13|di frodohob
L’antologia è molto interessante, uno dei pochi contributi (tre o quattro in tutto, direi) che permettano al lettore di capire in che senso si possa parlare di un "surrealismo italiano". L’introduzione è molto chiara, i testi appassionanti! Ne consiglio la lettura a tutti, non solo agli addetti ai lavori. Non vi deluderà!
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POESIA SURREALISTA ITALIANA
2008-09-30 21:18:30|di gugl
grazie per questo post!