Absolute Poetry 2.0
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PORNO ALLEGORIA

Il libro della sparizione, capitolo 10

Articolo postato lunedì 10 novembre 2008
da Nevio Gambula

All’inizio del 2006 avevo anonimamente aperto un blog con la volontà di indagare il rapporto tra la scrittura e la sessualità. Mi ero inventato un personaggio femminile, cui avevo dato il nome di Irene, e avevo chiamato il blog “le con d’Irène” (La fica d’Irene, che è il titolo di un romanzo di Louis Aragon). Avevo cominciato a scrivere, inventandomi incontri, memorie, amori, e contemporaneamente proponevo in lettura il blog. Stante l’argomento, il blog è stato molto frequentato ed ho anche aperto una serie di “relazioni” virtuali, via e-mail, e sempre con l’identità fittizia di Irene, con parecchie persone, attratte dalla mia scrittura e dal modo di affrontare l’erotismo (una rivista di settore mi ha anche proposto di diventare “redatrice”, con tanto di rubrica fissa). L’esperimento è durato tre mesi, da febbraio ad aprile. Ho quindi deciso di elaborare alcuni dei materiali e ne è nato questo “esperimento di scrittura” dal titolo L’altra dentro di me, di cui ne propongo qualche frammento qui di seguito e che può essere letto interamente (file pdf, 600 kb) cliccando qui. L’altra dentro di me è il decimo capitolo del mio monumentale Libro della sparizione, dove ho raccolto le principali opere scritte tra il 1998 e il 2008.

***

Tu sei nessuno; o sei poesia. Sei una traccia insolita, una parola ferita. Ti ho ascoltato a lungo, finché sono sfiorita, amandoti prima e dopo, sino all’ultima lacerazione. Tu mi respingi, io ti rivendico. Un poema, sei la mia lingua intraducibile, voce crudele dell’abbandono. Sei il mio carnefice. E non sei – oh, no, proprio non sei – il mio soccorso. Parola di diamante, misura dello sguardo, forma imprevedibile, sei il fracasso festoso dei naufraghi che vedono una nave all’orizzonte, sei il marinaio sul ponte che dà l’allarme, sei la lancia di salvataggio; ma sei anche la delusione della tempesta che allontana tutto sino alla prossima occasione. M’hai strappato alla noia per regalarmi alla disperazione. Sei il pugnale con cui ti ucciderò. Ma ti ringrazio del messaggio di stamattina, davvero grazie. Smettere di scriverti? Come potrei. È come augurarsi che la mia condizione di donna cessi: senza la scrittura, cosa mi resta? Tutto il resto, certo. E il resto è ben più che una pagina. Ma smettere è come divorziare da se stessi. E poi, amore, mi vuoi costringere ad amare un mostro? La scrittura è per forza questa evocazione di un qualcosa che non c’è, deve per sua natura agitare nella finzione un nome; eppure, lo sappiamo entrambi, dietro ogni nome c’è una cosa reale, ci sei prima di tutto tu col tuo corpo, ed io a quello aspiro, al tuo corpo caldo e traboccante, al tuo lucido irrompere nel mio brivido, alla tua innegabile bellezza. Quando c’è coincidenza tra la scrittura e l’essere allora siamo nel campo della perfezione, rasentiamo l’opera d’arte; noi, vedi amore mio, siamo questa deficienza, questa sciocca esibizione di parole che sostituiscono ciò che manca, ciò che è assente (non essente, appunto). Con la scrittura mi protendo verso di te; non posso toccarti, ma posso raggiungerti lo stesso. È un incontro che non diviene mai abbraccio, ed è anche un sacrificio; però, amore, se non lo facessi, se ora smettessi di scrivere questo diario asinino, la storia continuerebbe ad infierire ancora di più su di me, lasciandomi esangue davanti ad un mostro che mi ama senza soddisfarmi; sventolerebbe, certo, costui, il mio nome come una bandiera, tuttavia resteresti almeno come interferenza. È bello vedere il corpo del maschio che si esibisce nudo davanti a me … Non mi basta più, amore, l’esibizione di virilità, voglio altro, cerco altro dal tronfio ragliare di un cazzo in erezione o dell’allitterare narcisistico di frasi innamorate. Eri ciò che bramavo, eri ciò che rendeva giustizia a tutto ciò. Eri troppo bello per essere vero. Dovrei dunque davvero appendere le parole al chiodo? Boicottarti, non cercarti più rintanato tra le frasi, non seguirti tra le immagini, non partecipare ai miei stessi sogni? Smettere di amarti, insomma? Non ne sono capace, e alla fine cedo alla mia stessa inaffidabilità. Atroce condizione, quella di amarti e non poterti avere. Ecco, mi sento seviziata dai fatti di questi mesi, e resto scettica per quanto accadrà domani. Ma insisto: continuo ad amarti, senza neanche il conforto di una speranza. E continuo a scriverti. Ogni parola è un annuncio funebre, è una lama splendente che recide la testa, è un cappio al collo; ogni parola traccia il tuo frastornante addio. Ricordi la stampa che mi regalasti a Piacenza? Una donna partigiana che entra trionfante a Milano, nel 1945. Una foto sbiadita, dove però si vedeva bene la gioia immensa che abitava il corpo della donna, e la sua mano forte che sventolava uno straccio al cielo, forma spontanea di chi sa di avere sconfitto la tenebra. Io potrò essere soltanto quello straccio rosso – mi dicesti. Io ti abbracciai; sapevo che eri la mia liberazione, ma sapevo anche che eri la mia sconfitta. Ecco, diciamo che la scrittura è riprendere ad abbracciarti, è ingolfare di nuovo la gola con nuove speranze, è alzare i pugni al cielo. È una vertigine contagiosa, splendida vertigine che lascia senza fiato e che ha il sapore di una ripresa. Domani, domani forse lascerò perdere, riaprirò domani il severo tribunale dell’amore impiegatizio e banale legandomi ad un mostro qualsiasi. Oggi voglio stare ferma sulla mia liberazione, anche se ormai posso soltanto scriverla. La vita, con le sue croci, è soprattutto fuori dalle pagine, non lo dimentico; è al di fuori di queste parole che si gioca il mio futuro; è là fuori che il reale disegna altri disgusti. Devo cercare – oh, quanta ragione hai – le mie delizie al di là dello scriverti, però, davvero, non riesco a farlo, e neppure lo voglio. È per questo che faccio prendere alla mia bocca la forma della festa ogni volta che ti scrivo. Scrivere è, per me, tenere in alto quello straccio ...

[…]

Prodigio, visione, ventre senza fine, antro robusto e sporco, tronco massiccio, membro poderoso, viscido, infetto, mi stendo su di te, sotto le nubi, sotto questo cielo carico di nubi di carbone, mio cammino voluttuoso, mi corico sui tuoi spifferi, sulla tua corte aperta, da est e da ovest, d’improvviso col seno e talvolta nello spazio immoto tra l’ascella e la schiena, corpo semplice, corpo complice, corpo sardo e infetto, corpo di mare, scrivendo solo con le natiche sul tuo corpo scosceso, scrivendo dunque con l’alito, con quello che so del canto, io cagna venerata che lecca il petto villoso del randagio ridente trovato per caso, ritto e crudele, trovato nella cicatrice, laggiù dove il sole si ritrae nella bocca, o maschio antico, mi appoggio al tuo ventre, cerco calore, adesso ti tocco senza legge, e cerco l’abisso, cerco il porto illuminato, lo squarcio, le onde febbrili, la risacca, la gigantesca e vuota isola spasimante, cerco quel che non trovo, misuro ciò che separa la mia mano dal tuo fondo oscuro, sprofondo nel tuo corpo riverso, diverso, arido, e senza direzione, come una litania soffocata, dico il tuo nome in segreto, lo dico come rantolo, nero rantolo di cagna vaginale, lo prendo in bocca, il tuo nome, e lo sputo crepitante, il tuo nome che non posso dire a voce alta, così continua questa storia di nomi fittizi, di matrici nascoste, di membrane che occultano, ora sono giunta ai tuoi piedi, sanno di sale, sono di sabbia, piedi dolci coperti di mare, più antichi dello scoglio, coperti di cozze e di alghe fetenti, piedi che guardano le mie labbra coperte di piccoli molluschi, coricata su di te, cercando dove finisci, dove cominci, guardiana del tuo riposo, e mentre tu dormi io cerco di trattenermi, tu dormi e io vorrei ricominciare, così nella stanza si sente la danza ipnotica delle mie dita, la mia virtù bagnata, le reni che s’incurvano, le gambe che si allargano, si sente il movimento felice delle labbra che si aprono, il fiume che scende, il corpo che si espande, tenendoti la mano e divengo il tuo sogno, il tuo nutrimento notturno, la tua gioia abusiva, tu lo sai, anche se dormi lo sai, mi senti, nel sonno, come fiammeggia il mio petto, come la rotondità dei seni s’indurisce, come si organizza la scena luminosa della gioia, ora mi lascio andare all’azzardo, bagliore tra le gambe, oscillazione propizia, senza spiegazione scorre la mano sulla tua pelle, evoco il tuo nome, nel silenzio, per mangiarlo, pietroso il tuo nome, si distacca ansimante dalle mie labbra, stavolta limpido, lo ricopro di fiamma e già invade ogni parte del mio corpo in calore, da destra e da sinistra, da sotto e da sopra, il tuo nome si è incuneato lentamente tra i peli del pube, danza nel latte che lo inonda, io lo tengo finché posso, lui veloce mi sfugge e si insedia nel silenzio, prodigioso suono di vita, la mia cetra ora è carica, io sono sul punto di gridare, la lingua, la bocca, tutto sta per gridare il tuo nome, eccolo, sì, TU, TU, TU …

Tu sei il corpo che mi manca. […]

Ti reclamo, ironicamente, con la mia stupenda vulva culla scavata in verticale, instancabile, licenziosa vulva, rompendo ogni tradizione ti reclamo (ah amo-o-o-ore ho gridato senza unità tonale: tra le mummie ho gridato accattivante, sino ad esaurirmi). Nel circolo vizioso reclamo il tuo fascino veleggiante, mi manchi-chi-chi-mi-manca-sei-tu (cantato come marcia funebre). In attesa atea, apro la bocca in canto e con lingua musicale io bella donna chiamo il maschio-verbum, in attesa non finita mi manchi l’attesa è afrodisiaca. Bel maschio sono aperta scalpita questa figura a intervalli irregolari è il mio luogo tipicamente femminile, questo itinerario vaginale, che sibila e ti attende seducente si protende eccitata. Attore mio spirito selvaggio mia banda vocale mio negro a lunga gittata del resto sono pronta riscaldata al punto giusto amato attore: ascolta, io lo spero, è la mia intima preghiera, preghiera e perciò ambigua, cioè potrei muovermi, venire da te invece aspetto aspetto finché il pensiero non prevale sull’atto, il sonno l’assolo femmineo masturbazione rozza. Aspetto e ti reclamo, aspetto e ti coltivo tra le parole, aspetto e faccio musica, aspetto: varianti per vulva compulsiva, ubriaca, rabbiosa, monotone varianti. Chiamami, anche durante la notte. Vulva stratiforme, fenditura ragguardevole, amuleto: son qui, davanti allo specchio, come ogni mattina, ferita attendendo, sciogliendomi davanti a me stessa, schietta, pronta a rivelarmi, guardando gelida il vulcano che ho tra le gambe: che stupenda visione! […]

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