Absolute Poetry 2.0
Collective Multimedia e-Zine
Coordinamento: Luigi Nacci & Lello Voce
Redatta da:
Luca Baldoni, Valerio Cuccaroni, Vincenzo Frungillo, Enzo Mansueto, Francesca Matteoni, Renata Morresi, Gianmaria Nerli, Fabio Orecchini, Alessandro Raveggi, Lidia Riviello, Federico Scaramuccia, Marco Simonelli, Sparajurij, Francesco Terzago, Italo Testa, Maria Valente.
Fuoco Amico di Paolo Maccari
intervista di Marco Simonelli all’Autore
MS: Fuoco amico (Passigli, Firenze, 2009) si apre con una sequenza intitolata L’ultima voce. Un brano in prosa Strettamente riservato ci dice che chi parla è un “superstite ed è in cella, tenuto sotto osservazione”. Non sappiamo chi sia, né quali crimini abbia commesso, né chi siano i suoi kafkiani carcerieri. I diciotto sonetti successivi sono un’unità poematica composta di “scaglie di frasi, dialoghi sfasciati” (p. 17) dove entriamo nella mente del protagonista e osserviamo il suo (paranoico o lucidissimo che sia) flusso di pensiero. Vorrei che ci parlassi di questa sezione, di come l’hai ideata e composta, dell’uso che fai del sonetto...
PM: L’ultima voce è la sezione più recente del libro. Altre poesie che pure compaiono nel libro le ho composte successivamente, ma sono andate a confluire in sezioni composite a livello cronologico e non solo. L’ambiguità a cui ti riferisci mi piacerebbe che fosse conservata nella ricezione di ogni lettore: ambiguità intesa come ampiezza di eventuali rifermenti. L’azione si può svolgere ai tempi nostri, in Occidente, o in qualsiasi altra parte del mondo, in qualsiasi tempo. Ciò che più m’interessava, durante la stesura delle serie, era riprodurre con fedeltà certi passaggi psicologici di un personaggio mediante l’aderenza dello stile e, più sottotraccia, della metrica ai suoi pensieri e ai suoi sussulti interiori. Che si parli di un prigioniero attraverso una forma imprigionata in schemi fissi, è un’equivalenza fin troppo esplicita, ma a cui non ho saputo rinunciare, perché la sentivo, e mi veniva, estremamente naturale, fuori di ogni maniera. Del resto, le frequenti spezzature dello stile e della metrica dovrebbero essere, ancora, equivalenze di un accidentato e lacerato percorso mentale e fisiologico.
Il fascino che esercitava su di me questo fantasma di personaggio risiede nella sua anomala fede politica, tutta ancorata a un sentimento di solitudine che chiede affetto, protezione, compagni: per lui l’isolamento è inferno più che per qualsiasi altro: solo, la sua fede si sfarina, perché lontana da un microclima favorevole si rivela mancante di una dimensione ideologica fondata. Io credo che questo problema si sia presentato a molti fautori di un’ideologia forte, in prigione e non. Dunque, sul fondale cupo di un potere indeterminato, si muove questo personaggio che non è un eroe, né una vittima innocente (non si sa se sia innocente o colpevole, e in che misura): incarna qualcos’altro, un’irresolutezza, una solitudine trepida e dubbiosa. Prova a riutilizzare le parole d’ordine del suo gruppo (e lì ho osato, come raramente mi capita, una mimesi quasi canzonettistica di slogan che, in quanto tali, sono sempre un po’ buffi – tetramente buffi); non ci riesce. Il corteo dei suoi sodali prima ingrossa, nella sua mente, e poi defluisce con tristezza. Aggiungo soltanto che la matrice della serie ha una componente di percezione autobiografica. Abbastanza stanco di un io troppo io, ho sentito che certe mie percezioni viaggiavano meglio in una mente inventata; ma la componente autobiografica è soltanto un elemento, e certo non il più importante.
MS: Hai lavorato ad un’ampia monografia su Bartolo Cattafi (Spalle al muro, SEF, 2003) e nel risvolto del libro Mario Specchio lo cita insieme a Montale, Caproni e Luzi come presenze in qualche modo udibili dietro alla tua scrittura. In che modo queste scritture (abbastanza differenti fra loro, mi pare) hanno interagito con i testi di Fuoco amico? A parte questi autori (a cui io forse aggiungerei almeno Raboni e Fortini...) ci sono altre voci che pensi abbiano contribuito all’evoluzione della tua scrittura? E i tuoi/nostri coetanei/contemporanei? C’è qualcuno che ti ha influenzato o con cui intravedi qualche affinità stilistica e/o contenutistica?
PM: Non mi sottraggo al rito di dichiararmi, in quanto autore, poco adatto a ravvisare nel libro la voce di altri poeti. Inevitabilmente, questa voce c’è, e i nomi pronunciati da Specchio e quelli aggiunti da te sono tutti, credo, abbastanza verificabili, anche perché di poeti che hanno avuto molte fasi e molti temi, e che quindi permettono il collegamento a una loro stagione. Un autore che, da qualche anno, sento vicino, mentre prima mi lasciava abbastanza freddo, è Fortini. Mi interessa la sua dialettica tra effusione e pudore, la sua forte stilizzazione che nasce da motivi addirittura incandescenti (non solo di carattere ideologico). In una recensione di qualche tempo fa, Matteo Marchesini ha dimostrato, mi pare in maniera persuasiva, l’influenza di Fortini sui miei versi. In quanto ai contemporanei il discorso sarebbe lungo e difficile. Ho stima di molti poeti giovani e meno giovani. Alcuni li ho conosciuti grazie alla vicinanza geografica e alle iniziative che si sono svolte a Firenze (penso alle antologie di Nodo sottile); in altri mi sono imbattuto per altre vie, più accidentate. Ma non so davvero giudicare in che misura abbia contato il loro influsso sul mio modo di scrivere. Non è un modo per schermarsi, è la verità. Potrei parlarti dei poeti che oggi più mi piacciono tra i contemporanei, ma si entrerebbe in un altro campo, in cui parlerei soprattutto da critico, e non mi pare questa la domanda. Inoltre, rispetto alla poesia contemporanea, ho un costante senso di colpa: sono, se vuoi interessatamente, molto contrario a chi getta la spugna di fronte alla sovrapproduzione attuale e si dichiara impossibilitato a dare un giudizio. Stigmatizzo l’atteggiamento, ma purtroppo non riesco a tener dietro a tutte le novità e soprattutto, problema comune a tantissimi e arcinoto, ho grandi difficoltà a reperire i testi che pure potenzialmente mi interesserebbero. Si ha voglia a condannare le conventicole e i gruppi di potere: se non si è animati da una forza e da un’energia di ricerca che a me purtroppo mancano, si finisce per leggere chi si conosce e ci manda il libro; e magari a scriverne, alimentando quella che potrebbe sembrare una conventicola (nel mio caso di potere infimo). Infine, non ho da indicare soluzioni, se non quella personale di spoltronirmi e di mettermi meglio al corrente. Buon proposito che spero di mettere in pratica, anche per arrivare a una coscienza maggiore del contesto in cui opero e dunque della mia traiettoria rispetto a quella di altri.
MS: Alcuni dei testi di Fuoco amico erano già rientrati in Mondanità (Edizioni dell’Obliquo, Brescia, 2006). Vorrei che ci parlassi della costruzione del tuo libro come macrotesto. In che modo sei intervenuto? Come interagiscono la precedente aggregazione testuale con questo nuovo libro?
PM: Quando è uscita la plaquette Mondanità avevo già pronto un libro, che non era l’attuale (mancava la prima sezione, per esempio, e c’erano delle prose che poi ho espunto), ma che gli somigliava abbastanza. Il mio intento era quello di offrire un’anticipazione del libro pronto che ancora non trovava una collocazione. Non era, credo, impazienza (del resto erano passati sei anni da Ospiti, e dunque non credo di essermi rivelato frettoloso), bensì desiderio di testare, con una sineddoche, il senso del mio lavoro e la sua eventuale validità. Tutto sommato, è un libretto per cui provo ancora abbastanza simpatia, anche per la sua veste grafica (delle Edizioni dell’Obliquo, fin da quando ho letto le plaquette di Attilio Lolini e Il diario di Kaspar Hauser di Paolo Febbraro, ho sempre apprezzato l’eleganza e la sobrietà). Quando scelsi una ventina di poesie per l’occasione, decisi di non estrarre dal libro già allestito una parte unitaria, di non cercare cioè la coesione; né d’altra parte scelsi quelle che mi parevano semplicemente le più belle. Misi insieme testi molto diversi che mi sembravano rappresentare diverse possibilità del mio percorso, anche rispetto al periodo di Ospiti.
Poi, dal 2006 al 2009, ho scritto L’ultima voce, ho scritto altre poesie, e il libro originario di cui avevo offerto l’anticipazione mi è un po’ cambiato sotto gli occhi. Non potevo certo limitarmi ad aggiungere e infatti ho lavorato di forbici. Le sezioni che ora lo compongono, a mio avviso, hanno un loro significato, che dovrebbe emergere in maniera non esplicita ma abbastanza chiara dai rispettivi titoli, ed anche la scansione con cui si avvicendano mi pare che disegni un itinerario abbastanza leggibile. Soltanto la sezione finale, Tradimenti (formata da traduzioni molto libere o da riscritture vere e proprie), è una cosa abbastanza a parte, un’appendice. Comunque anche qui credo che si possa individuare una coerenza, nella scelta dei testi e nei modi di trattarli. Di sicuro, appoggiandomi su grandi voci altrui, mi sono concesso un sentimentalismo, un abbandono che di solito (ma non sempre) il pudore mi vieta.
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