Absolute Poetry 2.0
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Poesia Libera, Poesia Coatta

per Francesco Maria Tipaldi

Articolo postato mercoledì 7 novembre 2007
da Lorenzo Carlucci

Umberto Eco ha già osservato che il Postmoderno è un manierismo [1]. Del manierismo che affligge le nostre lettere è quasi inutile parlare. E’ un manierismo soltanto un poco più sfuggente di quello dei bei tempi: non è più esattamente misurabile, perché più non coincide con l’utilizzo di un ben determinato repertorio di figure metriche, stilistiche, retoriche, ed è pertanto vagamente polimorfo e potenzialmente infido. La carenza di libertà nella nostra letteratura è una nota caratteristica di questo manierismo, tanto evidente nella nostra poesia attuale, poesia che chiamerò coatta, in accordo con la seguente definizione.

Si dice libera quella cosa che esiste in virtù della sola necessità della sua natura e che è determinata ad agire soltanto da se stessa. Si dice, invece, necessaria, o piuttosto coatta, quella cosa che è determinata da altro a esistere e a operare secondo una certa determinata ragione.” (Spinoza, Ethica, Parte I, Definizione VII)

La scelta di un set di forme (metriche, retoriche, stilistiche) o più generalmente di ‘vincoli’, e la conseguente adesione esclusiva ad essi, sono, nella maggior parte dei casi, direzioni prese a priori, per ideologia, e in piena coscienza. Per “a priori” intendo prima dell’esperienza che possa guidare una scelta estetica. Con “per ideologia” intendo come frutto di idee cotte - o digerite - solo a metà.

Il poco amore per la libertà (la poca tolleranza verso la libertà) si esprime, esemplarmente, nell’accento quasi esclusivo sul conoscibile, sul conosciuto (o, tutt’al più sul concetto de l’inconoscibile) a scapito di ciò che è sconosciuto, in una completa negazione – e volontaria, e consapevole – dell’incoscienza del vivente che si affaccia, dimentico della propria fragilità, alla vita come intero (e in quanto intero e tutto, negazione dell’individuo).

Quale che sia l’epistemologia di riferimento, sia essa lo scetticismo wittgensteiniano di alcuni, il materialismo (storico) dei più, l’ermeneutica dei molti, il post-heideggerismo degli innumerevoli altri molti, il risultato non cambia: il poeta riceve una parcella di conoscibile (o di “dicibile”) e in essa – e soltanto in essa – prende ad esercitare il proprio diritto a dire. In questo atteggiamento sembra di riconoscere una radicale avversione allo spirito di ricerca, un certo dogmatismo e una pigrizia intellettuale da manuale. Una completa volontaria cecità al gioioso mistero della nostra ignoranza, al fatto elementare che ciò che è ignorato dall’uomo supera sempre – e per quantità e per complessità – ciò che dall’uomo è conosciuto.

Abbiamo qui una forma tipica di elazione raziocinante, del sentimento di onnipotenza che una facoltà tanto bastarda quanto la ragione umana prova quando decide di delimitare il proprio dominio. Un intollerabile contemptus mundi illuminista, se non scientista, riaffiora nelle tante poesie dei tecnici, degli specializzati, negli esercizi di lavori forzati della mente che producono forme di autocoscienza ipertrofica. Abbiamo qui tra i poeti una schiera di nuovi alchimisti che vogliono distillare la vita dal pensiero. Che vogliono riprodursi masturbandosi. Si dimentica una bella lezione di Pascoli: il poeta deve fare della conoscenza una coscienza. Un compito questo, che viene tralasciato proprio, tra i poeti, da coloro che avrebbero gli strumenti adatti, da chi si è esercitato nella scienza.

Proprio qui dove non l’aspetteremmo, nella Poesia, dove a prima vista non percepiamo che frammento, contraddizione, ricerca, ‘pellere’, tensione, irrequietezza, troviamo il volto orrido del dogmatismo, la polvere sul viso e nella gola.

Dei concettuali, da questa prospettiva, inutile anche parlare. Costoro fanno come i ristoratori di Trastevere: cercano di adeguarsi al mercato, in buona coscienza. Purtroppo guardano al mercato sbagliato (quello delle arti visive) e a un tempo sbagliato (una cinquantina di anni fa). La libertà anche qui non è di casa, perché la libertà richiede un soggetto. Un soggetto libero. Il soggetto invece qui è un tabù: se spunta va dissimulato sotto tra le pieghe, del sistema, va rintuzzato. Dopo la Ding-Gedichte si inaugura qui - nei casi peggiori - la Gadget Poetry, la trasformazione del testo poetico in una gomma da masticare (un chewing-gammm). Si può spezzarla in due e dividerla con l’amico (cut-up poetry), si può attaccarla sotto al tavolo e riprenderla. Ci si posson fare le bolle. L’importante è non schiacciarla.

Se dopo aver guardato i docili, vogliamo gli occhi all’altro capo del salone, e guardiamo ai ribelli, ai cattivoni, ai mangiatori d’uomini, tutto troviamo ancora fuorché la libertà. Troviamo, se ci va bene, il libertinismo di una Isabella Santacroce, o il feticismo di un Massimiliano Parente, intelligenza e forse anche talento volontariamente limitati al gesto elementare della sovversione: al ribaltamento. La croce a testa in giù dei satanisti. La mamma che fa le seghe al figlio (Parente, Mamma. ed. Castelvecchi), la figlia che fa i bocchini al papà (Parente, Incantata o no che fosse, ed. ES). Troviamo, tutt’al più, una antimorale, nel sadomasochismo che tappa la bocca alla Santacroce, giammai – giammai! – una amoralità. Perché la privazione non piace ai nostri artisti, e di tutto vorranno privarsi fuorché dei vincoli ai quali hanno scelto di affidare la loro sorte, gli uncini coi quali si appendono alla parete – molto liscia – del tempo della vita umana.

Eppure in cima alla Poesia moderna sta ancora Rimbaud. Ma di un dérèglement, nessuna traccia. Accontentiamoci dunque di una inversion de tous les sens, e non solo di quella che ci è offerta dai libertini e dai dissacratori (di chiese vuote), ma anche di quella degli annoiati, i quali, prima di gettare la spugna, decidono di farsi un giro nei musei d’Anni Settanta, di offrirci un bel re-règlement di “tutti i sensi” con forme vintage di poesia verbovisiva o di poesia combinatoria o di poesia concreta. A Roma, di recente, son tornati anche i fantasmi. Si aspettano le streghe.

La Poesia Coatta si assicura di sé. Un poco si riassesta. Ma se questa autocertificazione d’esistenza non bastasse, arriva in suo soccorso la critica militante. Non stupisce affatto qui la connivenza tra la Poesia Coatta e il milite ignoto della critica italiana. Qui troviamo, nella più parte dei casi, una perfetta corrispondenza d’amorosi sensi. E’ ovvio che una critica senza idee non possa che adorare la Poesia Coatta, la docile poesia che offre il materiale già informato, i Quattro Salti in Padella della Letteratura. Chi ha un grosso appetito può così, senza colpo ferire, impilare anche quattrocento pagine di critica coatta.

Da questo punto di vista, dal punto di vista di chi crede che un essere vivente debba cercare di usare al massimo e al meglio le proprie facoltà, risultano davvero intollerabili i numerosissimi esempi di una poetica dell’autolimitazione, dell’autocastrazione, o solo dell’autoripetizione, dell’aderenza a sé (all’io che in altre sedi viene sistematicamente espunto) e alle proprie certezze, le voci che delimitano scientemente il proprio raggio d’azione, e a quello si attengono inflessibilmente. Non solo i neo-manieristi filo-wittgensteiniani, ma i tanti – della più varia estrazione culturale – che, poco candidamente, disegnano il quadrato al loro orto e in esso stanno, ebbri di questo – paradossale – delirio del limite.

*

Viene allora il desiderio, di fronte a tanta coscienza, d’un poeta-moscone, che sbatta ancora e ancora e ancora contro il vetro, fino a cadere a terra tramortito. Tipaldi è un tale moscone, gode la libertà, la sua poesia tiene un piede nel sonno, come in una pozzanghera, come nel sugo in fondo al piatto (“Ho ancora il gomito nel sugo/dell’ultimo sonno lasciato a metà” esordisce il poeta in “bonbon”), si rotola volentieri tra i polli e le galline e teme pure, al pomeriggio, d’essere investito da un trattore. Ama la campagna ma, ecco, non è un poeta-contadino, né tantomeno un poeta-operaio rompicoglioni. Verso le cinque, a volte, prende il the con i pasticcini e poi gioca a far centro nella tazzina con la carta. Ha scritto un libro che però non è un libro (La Culla, ed. Lietocolle). Sono testi. La poesia di Tipaldi non ha quasi bisogno di farsi libro. Può essere raccolta in un libro, come anche no. Tutta quello sferruzzare e quella farraginosa meccanica della composizione delle raccolte o – "peggio me sento" – delle plaquettes non è rintracciabile, qui non si sente proprio. Invece di far le dediche bacucche a Zanzotto a Giudici a Cucchi a Fortini a vattellapesca. Tipaldi dedica “Marmellata” a Syd Barrett. Sarà perché è giovane, sarà perché è vivace. Son cose queste, comunque, intollerabili. [2]

E’ vero, si sente, nettissima, la canzone dei poeti russi, dei dissipati, lo spirito russo del gioco serio infantile (pensiamo a Chlebnikov, ma anche a Gogol’). Ne è un esempio il frequente ricorso a diminutivi e vezzeggiativi e al lessico dell’infanzia, al registro colloquiale con funzione di contrasto (e.g., “bara bianca piccina”, “i doloretti”, “culoni”, “con le sue manine”, “dispettoso marinaretto”, “la terra […] a tonfi” , “rimpinzata a dovere”, “il silenzio […] sa fare un gran baccano”, “impasticciare”, “ninni ninnò, piccino, ostia di carne” “partorire marmocchi”, “la memoria m’è scappata di mano”, etc.). Ma chi scrive così, in Italia? Certo però sarebbe un povero primato arrivare con cent’anni di ritardo, anche se “per primi”. Ma non stanno le cose così. C’è dell’altro in Tipaldi, oltre questa Stimmung buona del Novecento buono, del Novecento vitale e non vitalistico? La voce allegra di Joyce, il divertissement a rischio a tentativo della vita? Certo, si sentono anche troppo, a tratti, alcuni modelli, è possibile a volte addirittura indicare i modelli di singoli versi o di singole immagini (da Eliot, da Kafka, da Rimbaud, etc.) Si sentono i modelli come pezzi di pizza non digeriti, o, più aulicamente se preferite, come rifiuti che riaffiorano, mentre li tira via la piena della vita. Ma ecco, quello che conta, è che qui (e con “qui” intendo nel testo, nella poesia) vi sia una piena della vita. E che questa piena sia capace di trascinar con sé i modelli, che, con ciò, non sono più modelli.

Se vi offro, e in pasto ai lupi, e al calpestìo degli zoccoli dei buoi, un poeta non finito come Tipaldi, è perché questo poeta non finito, questo poeta non nato (Poesia della Non Nascita è il titolo d’una sua raccolta), è, ciò non ostante, o forse proprio in virtù della sua incompiutezza, pronto per fare questo viaggio all’inferno, in fondo agli occhi degli altri poeti, e possiede la bella franchezza di offrirsi a questo viaggio con slancio. E’ lui stesso a volerlo:

Sono un morto alle prime armi
o un embrione
— Pane e formaggio, vorrei

Tipaldi è capace di fare questo balzo, perché la sua poesia vince per elasticità, per la sua virtù di rimpallo, d’essere un trampolino e non un alberello votivo rinsecchito, non un appendipanni ma una pista da skate, anche una bella piscina. E non per adesione ad un programma, ad un concetto, non per coazione, non per disperata, morta, decisione.

Questa elasticità si esprime, nel testo, con un continuo e subitaneo cambio di punto di vista (soggettivo vs. oggettivo), di registro (da biblico a famigliare a colloquiale e ritorno), di tono (apocalittico, scherzoso, etc.). Questa dinamicità di sguardo e pensiero è ulteriormente movimentata dall’abbondanza di incisi (che funzionano essenzialmente come asides teatrali), e da irruzioni nel testo di brani di discorso diretto, spesso interlocuzioni o esclamazioni (ma notiamolo subito: non stiamo assistendo a un montaggio modernista).

Mi sembra che questo stesso scantonare da giovane animale del verso di Tipaldi lo si ritrovi nello schema che l’autore predilige per le numerose immagini che illuminano i suoi testi. Questo schema consiste in una crasi tra il materiale e l’immateriale (più che tra il concreto e l’astratto). Non di rado l’effetto è rinforzato dalla distanza dei campi semantici nei quali vengono scelti i due termini legati insieme nell’immagine. Alcuni esempi: “l’adolescenza si muove inzuppata”, “il tempo fa muffe sulla pelle”, “l’anima uterina”, “ho ancora il gomito nel sugo/dell’ultimo sonno lasciato a metà”, “vasca di sonno”, “la farina del tuono”, “il nulla […] puzza di cane”, “l’anima del latte incrostato”, “parole di fango”, “Giornata pallida di latte scremato”. E’ d’altronde il poeta stesso a dirci che la sua vocazione è proprio questa:

Mi piace impasticciare parole e rumori,
come sputi con il fango.

Con questo schema di metafora Tipaldi insegue una linea di “visionarietà elementare” (o semplice, in senso filosofico), una naturale possibile continuazione del discorso di Rimbaud, spogliato dell’isterismo avanguardista, e indirizzato verso l’orizzonte che è proprio della grande arte contemporanea: quello della naturalizzazione dell’arte.

Per impastare la sua visione, Tipaldi usa una palette di colori ristretta (la poesia sua ricorda in questo la pittura murale romana). Tre sono i campi semantici privilegiati: quello della campagna, quello del the del pomeriggio (abitudini casalinghe, borghesi e infantili), e quello funebre. Pochi registri sono ricorrenti: quello biblico/apocalittico, quello famigliare e colloquiale (vezzeggiativi, diminutivi) etc. Il tema dell’ imputridimento e del marciume attraversa tutta questa poesia, fa capolino costantemente tanto quando si parla di polli e galline, di interni contadini (come “fango”, come “sangue stagnante dei polli”, come “rimasugli di cena, putrido vino”, nei “petti tumefatti degli alberelli”, “paese, paese di case putrefatte”, etc.) quanto nel salotto di casa, tra the, pasticcini e marmellate (come “putredine”, “molliche”, “vomito”). Poi irrompe esplicitamente, e.g. in: “Tutta la carne è erba/e se l’erba è carne, è di uomini spolpati”, “Ho associato il grembo al fango ed il fango al buio”,“[…] Ma non siamo qui - Dio sia lodato - davanti a un “poeta del corpo”, né tantomeno davanti ad una “poetica dello scarto”. La materia organica/tende a marcire dopo pochi giorni.” E’ uno dei sintomi della preoccupazione centrale di Tipaldi, che è metafisica ed escatologica. La vicenda della materia, il continuo ribaltamento di vita e morte che in essa - come in un sostrato - si attua, è la matrice bifronte di questa poesia: la culla, la bara.

La poesia di Tipaldi è, d’altronde, una poesia decisamente interlocutoria, essa stessa soggetta a una continua vicenda: il susseguirsi delle prospettive non è offerto come spettacolo (o installazione) all’occhio, piuttosto all’orecchio e al cervello di un possibile interlocutore. Nel testo l’interlocutore è di volta in volta - nel giro di un verso - il poeta, il lettore, il genere umano, Dio. Dio specialmente (“Dio presenta al mondo le sue lattughe”, “Vedi, Dio deve avere mutande perfette”, “Deglutire, deglutire,/nella bocca di Dio v’è distesa di sale”), perché è proprio Dio il destinatario di queste poesie. Sono scritte tutte, e soltanto, sperando che lui stia ascoltando. Anche quando lo si dileggia. Sembra anzi che tutti gli scherzi, le domande lasciate cadere tra i versi, il suono di tromba delle esclamazioni, il brusìo dei dialoghi umani che il testo ripercuote all’infuori abbiano come unico scopo quello di provocare Dio, di attirare la sua attenzione, anche qualora ciò fosse – per un motivo o per l’altro – impossibile. Quasi che solo le parole che l’uomo rivolge a Dio fossero degne d’essere ascoltate da altri uomini [3]. E’ Dio la tazzina da the che Tipaldi vuole centrare con la carta del suo bonbon ("Dopo il mio bonbon spero di centrare la tazza"), come nel De Ludo Globi di Nicola Da Cusa, Dio è la (im)possibilità stessa di centrare la tazzina.

Ma pure la metafisica di Tipaldi è elastica come il telone di un circo, è sorella alla mitologia di Blake, che era anche lei urbana e cittadina, Adamo nudo nel giardinetto davanti casa. Blake sembra essere direttamente “presente” nella scelta dei nomi degli attori che animano gli ultimi testi, la suite “I Cachi”: Teho, Lod, Ioiakìm, Gah etc. Tipaldi vezzeggerebbe anche Dio, offrirebbe anche a lui un pasticcino, un bonbon. Io credo che Dio lo accetterebbe di buon grado. Perché la giovinezza che ha offerto a Tipaldi, Tipaldi l’ha restituita in poesia.

*

La poesia non è un puzzle, un gioco enigmistico, il meccanismo che è messo in atto deve riuscire a ciascuna rilettura, e per riuscire ad ogni rilettura deve essere consegnato ad una soluzione esatta, dev’essere, il verso, la soluzione dell’enigma che pone, e una soluzione del genere – cui non preesiste alcun problema – non può trovarsi che per un gesto arrischiato, un gesto in cui tutto l’esercizio tutto lo studio tutta la nostra buona volontà e il nostro orgoglio vengono sacrificati, gioiosamente, offerti alla natura, la bocca di balena. Ora Tipaldi sta dentro la balena, v’è entrato giovinetto, e con un balzo, sta lì nel rosso e viola, nel vuoto con i pesci e le galline, si sta facendo digerire dalla vita, così sfidandola, invitandola a ballare, o a fare la lotta sul letto, insieme a cantare.

Ioiakìm è sempre pazzo, Gah è incinta,
la balena è affogata.

*

Lacrimosa

Ho già mandato una corona di fiori funebri rigonfi
Sciacquati per bene alla mia tomba,
bara biance piccina esce fuori per le scale
e i miei cari piangono.
Un lupo scava, strappa brandelli dal mio cuore
nella neve. C’è nessuno? Mi sporgo dal velluto.
Una chiesa gremita suona il suo organo e sbuffa
che bella la messa, le nuvole d’incenso.

Risveglio

Arriva tra i chiarori la mattina, molto lenta
La memoria si sveglia turbata, (è stata saccheggiata nella notte!)

Cerco di sbrogliare i pensieri raggomitolati,
i versi intontiti rimasti tra le coperte verdi, gonfie di sonno.
Ci vorrebbe un po’ di marmellata a quest’ora, ma non c’è niente.
Il vero avanza corposo, facendo abortire ogni frammento, ogni parola
nell’aria pesante di prima mattina cominciano a destarsi i sensi
odori, immagini appannate, la vecchia caffettiera che borbotta.

Angelus

Via dai culoni delle contadine
dove finisce l’orto.

La terra dà le grida del parto,
le carissime doglie, nasce la verzura.
— Sia lode alle molli latrine dei maiali —
la domencia non si lavora,
si posano le zappe e ci si veste per bene.
— Dio presenta al mondo le sue lattughe —
Ai petti tumefatti degli alberelli
una giostra di fieno, e l’anima uterina che bruca
di dita di pane a sazietà.

bonbon

Ho ancora il gomito nel sugo
dell’ultimo sonno lasciato a metà, scrollato di dosso
dopo i minuti rituali da ebete delle lenzuola.
Questa volta stavo per baciarti quando chi sa, te ne ricorderai
spero - i doloretti - cosa terribile anche per un giovane
vi assicuro!

A rincorrere cose già fermate non ci si diverte
— c’è un calzino sulla serranda — Dopo il mio bonbon spero di centrare la tazza.

da Jerushalajim

Un abbraccio.

Porta del latte alle nostre barbe, Madre
caprina e vergine usurpata dai divini
semi.
— Al tempio si dice che è carne a male —
Passati da Mosca al fragore
del baratro nero - l’Egemone.
Arpie lerce staccano grumi dal cielo
i vessilli di Ponzio Pilato e i pugnali
alle croci sfatte.
Il fuoco sacro muore nel pugno
di Satana. Fiumi di anime bianche
cercano di risalire.
Alle spine, alle spine.

[...]

q

E sarà vento, teso a sgretolare
ridipingere le linee
asciugate
che l’orizzonte diventa giuntura
e viene vento, viene rosa, vieni tu
le linee sono quelle del tuo corpo,
la linea che rovina
la giuntura dell’acqua o il limite.
La finestra resta aperta ai pugnali, bianco-azzurri
finocchi, ho la testa
di pasta marcia, di crepe, di muri, di case:
Pensavo alle vene somigliano o no
alle code delle lucertole annegate
nei secchi, somigliano o no? Blu come la linea
dell’onda.
Le dita urlano sotto i denti,
la visione è un respiro trattenuto sott’acqua
poi l’aria si fa stretta, fino a considerare, considerar
la pasata. Neve
fitta
più fitta senza peso
senza colore inavvertitamente
più fitta.
Sono suoni di labbra, masticate
parole calde
visioni, mesoni da tirare come l’osso
col cane.
Sarà vento e darà grandine,
tanta, e la grandine è lo spirito
santo.
I cieli non sono umani.
I cieli non sono umani, non umana la luce
la luce cancella, dannatamente
cancella.
Il verso che si leva fa male agli occhi.

Detersivo

A voi miei figli
rimasugli di cena, putrido vino, tanto vino.
Prendete e mangiatene tutti -
Non una briciola, non una sola
briciola di pane che non fosse bagnata
avevamo i piedi nell’acqua e i calzini zuppi.
Che faccio poi?- dicevo - Se scrivo sento tirare i nervi,
il cervello basso
o il collo, crollo, bastone, testa
— l’umidità non aiuta chi scrive -

E maledette mutande!
Vedi, Dio deve avere mutande perfette.
Le mie lo erano, ora giro con la molla allentata,
la molla allentata e i calzini zuppi.

La casa è bagnata e i bambini battono le scarpe nella segatura,
la segatura gialla. La stufa è calda, ma emette un odore di vomito, credi?
Ho il ventre gonfio di sangue e di crauti novelli,
il sangue stagnante dei polli pop popòò :::
— l’umidità di per se non aiuta e lo stomaco è guasto

Pastorale

A quei tempi nessuno moriva
ed io ero nipote, dispettoso marinaretto
— Abbottona il cappottino, tesoro di nonno.
c’è freddo

Il rumore del sangue mi piove addosso
bell’ometto che sono.
ninni ninnò, piccino, ostia di carne.

Ho la faccia insanguinata di chi pedala e cade,
trascino la mia faccia e ho l’anima del latte incrostato.

[…] ninni ninnò, piccino bello, decede, scompare . .

Da "I Cachi"
Atto III ( la carne è varcata )

[…] Le fondamenta volarono in alto,
le sommità scesero sul fondo. Klima

( Nel nome del padre )

La casa venne allagata
e noi spazzammo la casa con le scope di paglia di riso
spazzammo via i vetri e l’acqua
come non fosse acqua nostra.

Non ricordo esattamente quando.
era tutto un pulsare la polpa,
la pelle, lo straccio era un’unica lacerazione,
ho vomitato le mie gambe e i miei denti
ho vomitato tutte le mie facce, tutte le facce
Ohr : Eravamo germogli di pane,
abbracciati nel fango.

Il posto sembrerebbe lo stesso, vi racconteranno

Orribile -
Dicono ancora dei cachi,
vaneggiamenti...
orribile, davvero

Ioiakìm : Ho lasciato i miei occhi alla mia fine
la carne è varcata, figli miei
— La contadina ucraina
continuava a lavorare senza reggipetto -
La memoria mi ha perso,
mentre il fracasso dei cani [...]
orribile

Lui sapeva del concepimento │ l’hanno fatto,
poi la parola del fango.

L’anima non è calda, né una candela.
Sono un morto alle prime armi
o un embrione
— Pane e formaggio, vorrei

Ci sono luoghi per chi non vuole piangere
— la memoria vede sempre di meno -
Gah: ricordo i loro nomi,
avevano mani morbide i miei figli, quei miei
tesori.

Ed io sono andato
dove la pioggia cancella le pozze
e le merde fanno bollire la frutta, i cachi.
I campi nascondono, covano, odorano.
I cachi!
Dicono che non ho occhi e penso come un cieco
passante: quantomeno la morte
avrebbe dovuto renderti responsabile […]

Riposino in pace le anime divorate
orribile, orribile
l’acqua è nel lavandino
ed il giro si fa sempre più stretto
( noi non abbiamo fretta )
Come sarebbe stata la non nascita, o neppure?

2 commenti a questo articolo

Poesia Libera, Poesia Coatta
2007-11-14 11:47:00|di lorenzo

c’è stato un problema tecnico e vari post sono stati cancellati. non è colpa di nessuno (purtroppo ;)). si può sempre riaprire eh.

lorenzo


Poesia Libera, Poesia Coatta
2007-11-14 10:13:40|

? perché è stato cancellato il dibattito?


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