Absolute Poetry 2.0
Collective Multimedia e-Zine

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QUELLO CHE SI VEDE

ANDREA INGLESE

Articolo postato lunedì 4 dicembre 2006
da Adriano Padua

Poesie da Quello che si vede (Arcipelago, Milano, 2006)

Andrea Inglese

5.

Una cipolla dura come il vetro,
se la sbuccio si scheggia, mi taglia
le mani. C’è una zona di freddo
che bisogna ridurre col radiatore
elettrico. Due ampolle in cucina
pendono nude, su pareti opposte,
combinate fanno una luce d’interesse
per i piatti e le posate. La gatta
come un piccolo mappamondo
si gonfia, o gonfio è solo il pelo.

Tutto avviene in superficie,
si mangia solo con la bocca, il resto
è buia macchinazione gastrica.
L’esistenza inconcepibile scorre
anch’essa su superfici, dentro
le si formano cisti, nel buio,
sotto la pelle, insondabili radici
come ricordi, globi onirici, pagode
di bianchissimo nulla. Non
guardare nei piatti il rimasuglio
di cibo, è materia densa, pesantissima,
ha mille bulbi, sporgenze, arti.

Rimani alla superficie, anzi
al bordo del piatto, la circonferenza,
null’altro, sulla maniglia forse
una goccia d’ambra, tenue
riflesso.

6.

E poi mi sono messo a guardare le scarpe.
Le mie, estive, di pelle, marroni chiare.
Non la suola accidentata, segata sul tacco
nel lato esterno di entrambe, no,
dentro, perché le calzo a piede nudo,
e si devastano progressivamente
con straordinaria armonia, aprendo
brecce dove poggia il calcagno,
per sfregamento, entropia minima,
ad ogni passo, con tutta la memoria
lì, del passaggio mio sulle superfici,
quel camminare sempre insano, fitto,
che si ignora, fuggendo avanti,
a scavalcare il proprio camminare,
sorvolandolo a mente, come perdendo
i propri pezzi altrove, sfilati fuori,
immateriali, a mulinare d’ansia nell’aria,
anzi in atmosfera zero, implacata,
dei miraggi. E solo le scarpe registrano
tutto lo sforzo dei passi, la concretezza
dello slancio, ogni metro, per gradini, prati,
ghiaie, lastre irregolari, asfalti monotoni.
Non io, che le sfilo entrato in casa,
dimenticando la terra che sempre
mi tiene a posto, sul punto d’appoggio,
appiedato nel mondo, certo almeno di questo.

7.

Non bastava essere veloci,
muovendosi su pattini lungo i marciapiedi,
o guardare dentro schermi, nelle mobili
immagini, le fasce di colore, le cifre
che ingrandiscono nel nucleo rosa,
il prezzo dell’andata-e-ritorno,
o sapere
a memoria il codice segreto,
per entrare in casa, prelevare
denaro, accedere alla posta,
o trovare sul dorso dell’involto
il codice a barre, e gli altri numeri
del giorno, non bastava,

esigeva l’alba,
con il gattino piccolo inarcato,
attraversato da tremiti, gli occhi
scoppiati fuori, il filo di sangue
dalla bocca,

esigeva su quell’asfalto
la sua morte
un punto di vista

(anche la patata, sepolta
che nel minimo calore
pronta a figliare
si rompe, spinge nel buio
i getti, ostinata)

8.

Ci sono zone dell’appartamento
inabitabili, altre fin troppo
abitate. Sedie su cui è vano
sedersi, o impossibile pensare,
o trovare una postura di adulto
vertebrato. I metri quadri
giurati dall’agenzia di giorno
in giorno raccorciano, ma senza
un ordine, a sproposito.

Di fronte, è senza cielo: specchi
d’esistenza nel quadro fisso
della finestra. Di notte o mattina,
è lo stesso: l’immota cucina
che l’anziana ogni tanto anima
ingoiando minestra da un cucchiaio,
le dita a mietere atomi di pane.
O la donna che strofina per ore
i sanitari, finché si allunga spossata
sotto la nube azzurra dello schermo.
O la più giovane, che allo specchio,
prima di dormire, indossa intero
il proprio guardaroba, solitaria.

Di qua stanno i limoni.
Un mucchio, nel piatto afgano,
pronti a cader fuori. Deformi,
grandi come patate, con l’adesivo
Duck e il marchio registrato
sulla scorza rugosa. Li ha venduti
il magrebino più a buon mercato.
Li beve lei, per ogni evenienza,
con acqua fredda o calda, per niente,
per sicurezza, salute. Io colgo
le loro bucce deformi, strizzate,
guardo nei vani dov’era il succo,
guardo il loro piccolo vuoto
negli occhi.

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