Absolute Poetry 2.0
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Quell’attore è un poeta

recitazione, emissione fonetica, interpretazione

Articolo postato martedì 7 novembre 2006
da Nevio Gambula

(visto l’interesse per la realizzazione vocale della poesia, propongo un testo appena pubblicato sulla rivista on-line "le reti di dedalus")

La poesia è l’esitazione prolungata tra suono e senso

P. Valéry

Sergio Colomba, dicendo della voce di Carmelo Bene (La voce di narciso, il Saggiatore), afferma che l’attore salentino si occupava della parola puntando «alla vocalità come rendimento poetico». In sintonia con Colomba, credo che alcuni nodi cruciali dell’attore contemporaneo riguardino non tanto l’uso d’una costruzione fonetica concentrata sul vocabolo come portatore di significato, procedimento tipico del cosiddetto teatro di prosa, quanto una scansione “metrico-ritmica” della recitazione, ossia la capacità di sottoporre le parole «ad un tipo di orchestrazione che crea, per mezzo di determinate sequenze, pause e rilievi» (G. L. Beccaria, L’autonomia del significante, Einaudi). La recitazione si configura non soltanto come tramite dei significati del discorso, secondo cadenze fisse e in gran parte prevedibili, ma anche come sperimentazione di combinazioni imprevedibili e arbitrarie capaci di aprire nuovi impulsi percettivi, e dunque arricchenti l’esperienza dello spettatore. In quello che potremmo definire l’attore poeta, le maschere fonetico-verbali sono costruite non più facendo aderire le parole alla parlata quotidiana, ma complicando la sintassi sino ad imbastire una vera e propria struttura poetica, dove le «figure del significante» sono agite in autonomia dai significati della lingua. Estrarre «dalla sonorità vocale tutte le infinite potenze musicali di cui essa è capace» vuol dire modificare la “curva fisiologica” del parlato, arricchendolo di una banda ulteriore: il non rispetto della naturale ampiezza delle sillabe esalta le potenzialità espressive dell’attore. Ora, a rigor di logica anche l’attore di prosa, nel suo incontro con la parola, per certi versi si sottrae alle consuetudini del parlare, non foss’altro perché deve portare la voce ben al di là di quanto farebbe in una situazione di vita quotidiana. Si può però affermare che, di solito, questo tipo di attore si approccia al significante in perfetta aderenza al significato, limitando le variazioni alla necessità di esporsi dentro uno spazio che abbisogna di una resa vocale particolare. Ciò che è radicalmente diverso tra l’attore di prosa (o interprete, intendendolo come mero esecutore del testo) e l’attore-poeta è la via per la quale la voce giunge a realizzare la parola.

Partiamo dal fenomeno dell’emissione. Com’è risaputo, per emissione è da intendersi quel «complesso di fenomeni che precedono, preparano e accompagnano la messa in vibrazione delle corde vocali, mediante la produzione del suono fondamentale laringeo e la sua trasformazione in voce mediante il tubo aggiunto di risonanza» (R. Maragliano-Mori, Coscienza della voce, Curci Editore). Secondo una impostazione ormai accreditata, nella produzione artistica della voce concorrono, essenzialmente, due elementi: la personalità dell’individuo e la sua concezione estetica. Entrambe queste dimensioni influenzano l’emissione. L’atto respiratorio, ad esempio, che è il fondamento di ogni buona emissione, può essere regolato in base all’idea di vocalità che voglio ottenere. Qual ora voglia semplicemente aderire “allo spirito del testo”, adeguandomi alle sue esigenze interne, debbo regolare il fiato in modo che non traspaia alcuna contraddizione tra ciò che emetto in forma di suono vocale e ciò che dico a livello semantico; devo cioè adattare la sonorità agli sbalzi di stato d’animo del personaggio, rendendo ogni mutamento coerente con quegli stessi sbalzi. La sensibilità di un attore si misura ancora oggi, principalmente, con la capacità di legare la sua azione al personaggio. L’apparato fonatorio, allora, è sollecitato per l’espressione di sentimenti (o di idee o di precetti morali, della “parte” insomma) e non, come accadrebbe se io volessi invece impostare l’emissione senza seguire le tracce del personaggio, come segni, i quali sono, per natura, «sintesi organiche di un significato e di un significante» (F. Rossi-Landi, Semiotica e ideologia, Bompiani). Il lavoro dell’interprete, dunque, nel suo subordinare inevitabilmente il suo corpo sonoro alla dimensione del significato della parte, si svolge come isolando una porzione di se stesso dalle altre, auto-limitando la sua stessa capacità espressiva.

Proviamo a scendere nel concreto, partendo dall’attività che avviene entro il corpo dell’attore, ed in particolare nella bocca, durante la formazione della parola. La prima dimensione riguarda la formazione delle vocali e l’intreccio di queste con le consonanti, ovvero la pronuncia e l’articolazione delle parole. Nella lingua italiana, le regole della corretta pronuncia prescrivono il rafforzamento sonoro di alcune consonanti semplici, poste ad inizio di parola, da pronunciare come se fossero doppie, per cui, ad esempio, i primi due versi de L’infinito leopardiano andrebbero pronunciati:

sèmpre kàro mi fù kkuest érmo kòlle / e kkuésta sièpe, ke dda ttànta pàrte.

Questa risulta essere una delle regole più seguite dall’interprete, tant’è che ogni corso di dizione la menziona e la insegna (Cfr. La voce recitante, M. Boldrini, da cui è preso l’esempio). Ora, secondo Grotowski questa regola è pericolosa, in quanto «l’eccessiva accentuazione delle consonanti provoca la chiusura della laringe», e dunque limita la capacità, durante lo spettacolo, di regolare il fiato e di portare in modo adeguato la voce; soltanto nello bisbiglio - suggerisce lo stesso Grotowski - ci si appoggia sulle consonanti. E ciò è sostanzialmente vero. Ma può succedere che la parola subisca, per scelta, un processo di deragliamento della sua pronuncia e articolazione. Può ad esempio succedere che l’attore disponga l’apparato fonatorio per una emissione forzata delle consonanti, per ottenere un effetto particolare:

kkkkkkk k k kkkkkuest-t-t-t érmo k-òlle;

o addirittura, come accade in certe frasi di Carmelo Bene, limitando quasi a zero l’apporto sonoro delle vocali, ingoiandole e quindi sospendendo l’emissione del fiato per il tempo necessario a preparare la lingua e il palato alla successiva produzione di una serie di sonorità ottenute legando tra loro diverse consonanti. Le regole generali, dunque, sono “usate” o addirittura smerdate da un dato pensiero estetico che si pone di fronte ad esse in maniera critica e cerca una espressività vocale che trascenda il modo comune di agire. Infatti, mentre l’attore-interprete si limita ad abbellire un fatto vocale che è già dato, nelle sue caratteristiche essenziali, nell’andamento ritmico-semantico e soprattutto “psicologico” dello scritto, quello che abbiamo definito l’attore-poeta ne varia la struttura. Si prenda l’effetto dell’allungamento della vocale. Per l’interprete tale allungamento è possibile se lo stato d’animo del personaggio, in quel momento, lo giustifica; se è gonfio di rabbia, il significato della parola «lasciatemi» coincide con il portante fonico, per cui la vocale “a” della tonica è emessa, magari coi denti digrignati, per rispondere alla necessità di formare quella coincidenza; allo stesso modo, la vocale finale “i” può essere allungata e trasformata, ad esempio, in accenno di pianto. Al contrario, sempre prendendo a riferimento Carmelo Bene (la parola «lasciatemi» è il finale di un verso di Majakovskij tratto dallo spettacolo Quattro diversi modi di morire in versi, versione in vinile), la tonica viene appena sfiorata, mentre la “i” finale è esaltata in lunghezza affatto naturale, ed è fatta vibrare in una serie di passaggi velocissimi d’ottava e di scadimento del volume, creando un effetto di allontanamento che non coincide con il significato, ma che di fatto lo esalta. Di certo si può affermare che il meccanismo che sorregge la pronuncia e l’articolazione avviene, nell’interprete, naturalmente, ovvero acquisendo la capacità di controllare i movimenti muscolari necessari senza discostarsi di nulla (se non nell’intensità dell’emissione, e comunque nell’adeguare la portata fonica allo spazio), della prosodia quotidiana. L’attore-poeta, invece, ribalta le regole, arricchendole di nuova esperienza.

Proviamo a leggere gli stessi primi due versi leopardiani citati in precedenza; proviamo a farlo la prima volta normalmente, magari anche colorendo la lettura con l’impiego di pause motivate. E proviamo poi a farlo seguendo le seguenti indicazioni:

sempre (sibilante, afono, con leggera pausa dopo la prima sillaba)

caro (“caaaaa” basso profondo, “ro” espirato semiafono)

mi (miiiiiiiiiiiiiiii prima decadimento fonico e poi soffiato)

fu (netto)

quest’ermo (semiafono, sforzato)

colle (sforzato, a sfumare discendendo)

e questa siepe (legato, basso, sforzato)

che da tanta parte dell’ultimo orizzonte (sforzando ogni sillaba, ma legato, con la sillaba finale “te” in salire di frequenza)

il (staccando la vocale dalla consonante, con leggera pausa e facendo schioccare sonoramente la “l”)

guardo (basso, spaventato)

esclude (la “u” glissa in basso fino all’afonia, la sillaba finale altissima).

L’effetto ottenuto grazie all’irregolarità dell’emissione tenderà a classificare questa proposta come rumore, almeno rispetto al comune sentire. Eppure, se si memorizza il procedimento e si esegue la partitura dopo averla provata un po’ di volte, non si mancherà di riscontrare un certo interesse, una diversa tensione dovuta proprio al particolare modo di impostare la scrittura vocale. Se poi ad agire la stessa è un attore dotato di esperienza e di consapevolezza sonora, ebbene il senso dell’infinito leopardiano esploderà in tutta la sua magnificenza poetica, e in maniera più efficace che non la stessa lettura affrontata col metodo dell’interpretazione. La differenza è quella che passa tra la lettura dell’Infinito fatta da Carmelo Bene (in I canti di Leopardi, versione televisiva) e quella di Giorgio Albertazzi (in G.A. recita Leopardi, audio cassetta, Curcio Editore), quest’ultima di una banalità sconcertante, da allievo di primo anno di scuola drammatica.

Lo stesso tipo di analisi potremmo farla sia sull’uso delle qualità del suono vocale, ossia per i fenomeni dell’altezza, del timbro e dell’intensità. Tutti i Canti leopardiani sono tradotti vocalmente da Albertazzi su un’unica linea interpretativa, dove la sensazione, ad un ascolto “professionale”, è quella di semplice lettura piana; non compare né una variazione d’altezza significativa né un mutamento del timbro, anche questo tenuto fermo su quello naturale dell’attore. Nessun «fuoco d’artificio» caratterizza la dizione. Ogni tensione è contratta in un andamento regolare. L’attore Albertazzi recita Leopardi come se stesse leggendo ad una platea la lista della spesa. Un verso solo dei Canti recitati da Bene basterebbe per misurare la distanza abissale tra questi due attori. Ad esempio, basterebbe ascoltarsi il “vibrato” usato nel verso finale de L’infinito, oppure il suo consueto “scadere” del suono nel dire l’ultima parola della poesia («mare»), dove Bene, accompagnando la fonazione con il tirare indietro il capo, ci fa percepire la dolcezza di quel naufragare.

Per precisare ulteriormente il differente approccio alla parola da parte dei due tipi di attore qui considerati, proviamo ad introdurre la funzione dei “registri”. L’estensione della voce, i suoi cambiamenti di timbro e di tono, sono ovviamente legati all’uso che di solito se ne fa entro un’epoca ben precisa. La presente prevede la tenuta dei cambiamenti di registro entro margini limitati, allo scopo di ottenere un effetto rassicurante. Come insegna l’analisi musicale, «l’emissione vocale ‘spontanea’ è una emissione di un intervallo di quarta» (R. Maragliano-Mori, op. cit.); nella parlata quotidiana è misurabile un distacco di cinque semitoni tra il punto più basso e quello più alto. Nel canto l’estensione ovviamente aumenta (dal falsetto al basso). Ora, fatta salva la gamma vocale di ognuno, differente anche per caratteristiche biologiche, l’abitudine ha reso disponibili gli attori a muoversi a fatica nei passaggi; e ciò non tanto per la non padronanza dello strumento, quanto piuttosto per la reticenza a confezionare una recitazione poggiata sulla variazione dei registri. A parte alcune situazioni, ad esempio nella rappresentazione di un personaggio isterico, dove il registro muta come conseguenza della sensibilità del personaggio, in genere la voce è tenuta su una estensione di poco maggiore di quella parlata tutti i giorni. Eppure, anche qui, la storia del nostro teatro non è avara di spunti diversi; tra i più importanti c’è sicuramente quello di Leo De Berardinis.

Leo De Berardinis è un poeta della scena che ha fatto dei cambi di registro un suo particolare stile. Esemplari quelli eseguiti recitando Urlo di Ginsberg (registrazione dal Terzo Programma RAI), attraverso un percorso complicatissimo dentro e contro il testo, dove la battuta è trasformata in un canto dissonante e le sillabe disgregate, torturate, rese rumore. De Berardinis è stato capace di sintetizzare, attorialmente, tutte le ricerche sulla vocalità sino a quel momento svolte, soprattutto in campo musicale. Negli anni in cui De Berardinis cominciava veniva ad affermarsi, in particolare con il lavoro di Berio insieme a Cathy Berberian, una nuova idea di vocalità (Thema è del 1958, Visage del 1961, mentre Sequenza III è del 1965), molto vicina alla dimensione teatrale, in cui lo strumento veniva esaltato ben oltre le nozioni di canto allora conosciute e in cui, come afferma lo stesso Berio, «i cambiamenti di emissione vocale e di espressione hanno importanza fondamentale». Queste ricerche sul gesto vocale coincidono con quanto, in quello stesso periodo, stavano sperimentando gli attori che sarebbero poi diventati parte integrante di una nuova funzione della voce recitante, da Carmelo Bene (il suo primo spettacolo è del 1959; già allora Flaiano notava: «la sua voce scende fino al più angoscioso falsetto») allo stesso De Berardinis. Quest’ultimo, a furia di ascoltare il naufragio dei suoni operato dal free jazz, ha costruito un suo “stile” vocale sempre in bilico tra improvvisazione anarchica e controllo ferreo della partitura. Come lui stesso dirà, in uno dei suoi primi spettacoli, Aspettando Godot (regia di Carlo Quartucci, 1964), arriverà a contare dodici cambiamenti di registro (Cfr. G. Manzella, La bellezza amara, Pratiche editrice) e ad usare tutta la gamma dei gesti vocali possibili nella recitazione del personaggio. La dizione di un Albertazzi qualsiasi, invece, si accartoccia su una variazione inesistente... (ascolta un frammento del Cantico dei cantici recitato da De Berardinis oppure un frammento del suo Amleto)

In rete sono facilmente reperibili esempi di queste due differenti modalità di realizzare la parola tramite la voce. Consiglio l’ascolto di Lamento per la morte di Ignazio Sanchez di Federico Garcia Lorca letto da Carmelo Bene, lavoro che viene tenuto in scarsissima considerazione da parte degli studiosi, eppure importantissimo per lo sviluppo successivo della ricerca dello stesso Bene. È liberamente scaricabile cliccando qui.

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