Absolute Poetry 2.0
Collective Multimedia e-Zine
Coordinamento: Luigi Nacci & Lello Voce
Redatta da:
Luca Baldoni, Valerio Cuccaroni, Vincenzo Frungillo, Enzo Mansueto, Francesca Matteoni, Renata Morresi, Gianmaria Nerli, Fabio Orecchini, Alessandro Raveggi, Lidia Riviello, Federico Scaramuccia, Marco Simonelli, Sparajurij, Francesco Terzago, Italo Testa, Maria Valente.
Antonio Porta in un celebre scritto (Nel fare poesia, 1985) parla del poeta come di un palombaro, Hannah Arendt in un suo splendido saggio (Il pescatore di perle:Walter Benjamin 1892-1940) definisce Walter Benjamin un pescatore di perle; ad accomunare queste definizioni il movimento verticale di discesa /ascesa per cui in solida e dissoluta apnea, armato di un solo respiro in grado di fermare il tempo dilatandolo, il poeta si cala sul fondo del mare per recuperare e liberare quel che in esso c’è di più simbolico, l’oggetto nascosto di minuta lucentezza e perfezione, la perla metafora e il corallo degli abissi, per ricondurlo finalmente in superficie, nel presente storico e civile dell’esserci, nel fare parola, la storia; la Arendt scorge in questo passaggio una minuzia, difatti Benjamin scava nei recessi del passato e si immerge in esso ma non allo scopo di resuscitarlo a ciò che era e di contribuire al rinnovamento di epoche estinte[..]ma ciò che guida questo pensiero è la convinzione che benché gli esseri viventi come le loro opere, siano soggetti alla rovina del tempo, il processo di decadimento è contemporaneamente un processo di cristallizzazione, che prende la forma di "frammenti di pensiero". Frammenti che sedimentano in forme e strutture sempre diverse, che mutano al mutare degli eventi storici e fisici, delle categorie del ricordo nel presente storico, ogni volta mutato. Stesso può dirsi del linguaggio poetico in Porta: il linguaggio della poesia ‘ sta dentro ‘ la lingua, come la storia degli uomini ce la consegna, non fissata per sempre ma in continua trasformazione perché la lingua a sua volta ‘ sta dentro ‘ l’oceano prelinguistico, l’esperienza immediata, il sentimento che ne scaturisce, e perfino l’estasi dell’esserci. Poeta è colui che attraversa queste stratificazioni come un palombaro, in discesa e in ascesa, e prova un’irresistibile vocazione a rendere conto di queste discese-ascese. Ad esse si lega la forma della poesia, inventata di volta in volta come linguaggio dell’espressione. L’intreccio è materia, il pensiero si mescola, si fonde, è Benjamin a scrivere, a parlare: la lingua è un archivio di somiglianze non-sensibili, di corrispondenze immateriali. E’ proprio nella parola-suono che ritroviamo l’eco della vita anteriore, come nel deja-vù risiede in un cristallo, resiste il mai avvenuto, ma tuttavia possibile, il non vissuto iscritto tuttavia nella nostra memoria.
In Roversi certamente la sedimentazione è gassosa, primordiale e misteriosa, visionaria, drammaticamente grigia, nebulosa, realmente immateriale. Il ricordo, in quest’ottica, assume una valenza diversa, è uno scavare, un sondare, una pre-vedere, diviene una ricordazione, un atto voluto e allo stesso tempo un processo continuo di ricerca e disvelamento. Non si tratta quindi di tramandare semplicemente un passato ma di rintracciare il legame, il richiamo fra le costellazioni, le avrebbe definite Benjamin, in un movimento elastico e ridondante: le schegge di tempo presenti i frammenti di pensiero, rimandano ad un altrove immaginato sacrario.
Ed è questa la costellazione, il legame che annoda, la partitura che risuona in Benjamin e in Arendt, in Porta e in Roversi.
Arriviamo facilmente alle citazioni, ogni presente cita un determinato passato, al paradosso della citazione in cui il passato è presente in quanto obliato; in Roversi il passato è una guerra continua di trincea, è il braccio alto, sigaretta accesa, "forse si torna a casa" e lo sparo preciso del cecchino avverso, nel paradosso di quell’istante l’unico amico fraterno, il fratello. E la cristallizazione e il sedimento e le dita che saltano, la sigaretta ancora accesa.
Il passato è un’epica, un’epica della catastrofe che ammassa incessantemente macerie su macerie, è un bombardamento di boschi, di alberi fitti, è cenere e pioggia di cenere, è massa di grigio e le scaraventa ai suoi piedi, ai piedi dell’angelus novus, come del vecchio savio e del poeta-guerriero che ha ottantotto vipere fra i capelli, come le erinni o furie, che ritroviamo anche nell’Inferno dantesco ad ostacolarne il percorso di redenzione.
Canto I
"Dice il bambino: bum bum bum è la guerra?
Italia numero uno o numero trenta è la guerra?
Sul prato ride e corre
corre e alza un aquilone al cielo.
Bim bum bam la casa cade brucia l’aquilone
la guerra arriva fra le mani del bambino
Italia numero uno ciau bambino per sempre
anche l’aquilone è caduto.
L’ardente fiamma di passione delle bombe.
Le bombe compiono il loro disperato dovere
hanno per sorte
di esplodere lucidi frammenti che avvampano e volano
a massacrare il tempo lieve della vita
per triturare le ore fino all’estremo destino
e fare di un minuto un secolo."
Nell’ottica spazio-temporale il progresso è ipotesi di futuro, in Roversi giovane-vecchio, come per Benjamin, è questa bufera, incarnata dal bambino con l’aquilone, è la guerra-passato che arriva nelle mani del bambino e tutto travolge, è un naufragio folgorante, la montagna che tuona, il passato contro il passato il presente balza contro il futuro,
"Piove da giorni anche oggi il cielo
è basso sulla terra
come il ventre di una cagna
che si distende per allattare.
Italia numero uno numero trenta labbra di miele
capelli serpenti nel prato s’alzano tende
là in fondo pioppi paurosi stridono
al vento della notte
dentro alle tende risiedono senza futuro
soldati prima della battaglia.
Folgoranti naufragi.
Tuona la montagna e travolge.
Rose foglie di neve."
E ancora:
"Le generazioni si inseguono
non lasciano la presa.
Dalle barche rotolando sui mari in tempesta
scendono i nuovi crociati
spade o corazze,
non lasciano tracce non sottoscrivono orme
cancellano i fiati nell’aria
aspettando la notte
……………………………
aspettano la luce del giorno.
Del giorno.
Non hanno lance. Non scudo.
Non lasciano orme.
Io c’ero."
Io c’ero, io c’ero, lì c’ero anch’io (verso presente in "Calpestare l’oblio"), è forse questa l’incredibile contraddizione della poetica roversiana, questo tentativo lacerante di sparizione e nascondimento dalla storia della letteratura e allo stesso tempo l’urgenza della presenza, incessante e mutevole necessità di storicizzarsi, di stare all’erta, nel mentre, nel farsi della storia.
A questo punto, proprio per monadismo, per ricordazione, non possiamo non tratteggiare un ulteriore legame storico tra i due grandi pensatori del ’900, Roversi e Benjamin, ovvero la loro passione per il collezionismo (ricordiamo anche Pagliarani, grande collezionista).
Colui che colleziona sostituisce, nella scelta dei suoi oggetti, il contenuto con l’originalità e l’autenticità. Le macerie della storia possono essere ricomposte, riprese e conservate solo dall’amorevole perizia del collezionista che deve chinarsi a raccoglierle.
Chi nel silenzio e l’attesa raccoglierà le nuove vicende?
Chi raccoglierà fra i sassi le nuove canzoni?
Morti Sciascia, Calvino, Pasolini, Fortini, Volponi, Vittorini, chi potrà ereditare questo compito?
Ascoltiamo questi versi cantati, che già alla prima lettura ho sognato di cantare, a voce alta, nei boschi, come un vecchio partigiano, senz’armi.
XXII.
"La Grecia brucia.
Brucia l’Italia.
Antonio è partito.
Brucia cuore e futuro.
Morti Sciascia Calvino Pasolini
Fortini Volponi Vittorini persone
di alto gradimento. La giornata
è lunga amara in questa Italia
cavallo che caracolla azzoppato.
Sta arrivando l’inverno.
Sarà di nuovo il tempo bianco della neve?
O prevarranno giornate temute
con poche voci annidate nel petto?
Chi nel silenzio e l’attesa raccoglierà le nuove vicende?
Chi
raccoglierà fra i sassi le nuove canzoni?
Momento gelido da ricordare.
Vittorini cammina adagio lungo i navigli
rapido e sicuro Calvino sta scrivendo una lettera
Pavese ha appena bevuto cicuta nel terribile
silenzio d’agosto
Fortini arriva correndo impetuoso e ammonisce la vita.
Sferziamo cavalli che sono bianchi cavalli di pietra.
Un vulcano aspetta di triturare il cielo.
Cenere bianca fredda si depone ai miei piedi.
E tuttavia anche noi aspettiamo."
E questo saper collezionare per la Arendt è l’essenza del citare che è, a suo avviso un modo per nominare, cioè fare luce sulla verità delle cose. Poichè proprio il linguaggio contiene il passato. E lo contiene per Roversi in forma allegorica, come vera e propria allegoria della storia, in cui nessuna verità è più completa e terribile della verità della memoria.
Canto XX
"[....]
Canta una voce la fame nelle notti di luna
le donne con gli occhi accendono fuochi
neanche una foglia è leggera in questi anni di secche castagne.
Il sangue perduta la luce s’annida fra sassi e capelli.
Che tempi si squarciano oggi?
Le case
bruciate nel sangue
non sono antiche memorie.
Gatto fra gatti, cane fra cani, cinghiale di selva e radura
ombra su asfalti dentro silenzio di mondi
cielo di fumo e nebbie di boschi bruciati.
Che tempo è questo? Senza ricordi mi perdo?
[...]
Bruciano uomini e libri
bruciano i libri e le cose
(le biblioteche sono polvere grigia bagnata)
bruciano i ponti le case le tele
dipinte da vecchi maestri impazziti
bruciano le parole ai bambini che guardano il mondo
fra missili ogive sigarette vendute nei porti.
Vedo la morte regina del mondo ruotare sul mondo
per la violenza del mondo
nel silenzio del mondo.
[...]
Ma io dove sono? Dov’ero? Mio è il silenzio
nel fuoco, mia la casa che brucia, io brucio le
mani che stringono il giorno perché non abbia destino.
Io contro un muro in attesa e
bruciano boschi le città bruciano bruciano
mute le acque i grandi monti sono solitari e perduti. Ma io
dove sono? Dov’ero?
Non mi lasciavo, oh
non mi lasciavano davvero, oh
Non mi lasciavo sgomentare.
Qua sono (egli dice) rispondo. Qua sto.
Come un soldato non vinto
sottraggo la morte alla morte
nell’Italia squarciata da trenta miserie sul fianco del fuoco e del freddo
Verrà pure domani."
L’idea di citazione rimanda inevitabilmente all’idea di frammentazione come spazio di resistenza e di opposizione politica e poetica alla società contemporanea, in netto contrasto, se vogliamo, con l’archivismo onnicomprensivo nelle società occidentali inteso come produzione capitalistica di memoria collettiva, con l’iperrealtà dovuta al bombardamento cronachistico per cui tutto si ricorda e si dimentica nell’arco di una manciata di ore.
I frammenti gassosi recuperati dal poeta bolognese, in quanto isolati e dimenticati, sono in parte liberati dal marchio dell’ordine sociale esistente e rappresentano quindi delle vere e proprie pillole di rivoluzione, frammento-maceria di una totalità infranta. Ma l’azione poetica di Roversi, come ben sappiamo, non si interrompe qui, anzi percorre sentieri inaspettati, come un guerrigliero su un appennino dimenticato, che continua eretico a combattere una guerra già finita, conclusa da anni: e così la frammentazione della sua opera, "L’italia sepolta sotto la neve", in tante piccole pubblicazioni sparse, presso piccoli editori vicini al poeta, e ancora la forma poematica ma frammentata, nel linguaggio e nel verso, per giungere poi al suo atto estremo di ribellione, burlesco e paradossale, geniale e perverso, l’autocitazione, presente, all’occhio più attento, lungo tutto il poema in questione, ma se vogliamo, come monade, anche a ritroso nel tempo:
Già nei primi anni ’60 infatti scriveva (da "La Descrizione in atto") :
"Non c’è più l’eco, il suono non c’è, il percuotere
dell’ultimo dissenso, le voci
placate (finalmente?), i refusi scomposti;
ribolle un altro piombo per più degne canzoni
la caratteristica del tempo è una misurata indifferenza,
tutto interessa un poco per brevissimo tempo,
ogni cosa muore, deperisce, sé consuma e sfoltisce
nel forno della memoria."
Chiudo questa breve lettura dell’ultimo capitolo de "L’Italia sepolta sotto la neve" ammettendo che il testo è costellato di citazioni di ogni genere, da amici, critici, filosofi e poeti, che solo per questa volta, non avevo nessunissima voglia di "citare". Che nessuno si risenta, ve ne prego..
Roberto Roversi, gennaio 1923, è laureato in filosofia e per quasi settant’anni è stato impegnato in una libreria antiquaria. Ha pubblicato versi e testi in prosa con gli editori: Salvatore Sciascia, Feltrinelli, Mondadori, Einaudi, Rizzoli, Editori Riuniti, Il Girasole di Catania, Pendragon, Pironti, Sossella, Bohumil.
Fabio Orecchini
ROVERSI, IL COLLEZIONISTA DI PERLE
2011-09-28 11:35:32|di Spennacchietto
Mi è venuto in mente Eschilo “palombaro di se stesso”.