Absolute Poetry 2.0
Collective Multimedia e-Zine

Coordinamento: Luigi Nacci & Lello Voce

Redatta da:

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SANDRO MONTALTO: ESEQUIE DEL TEMPO

una selezione dalla raccolta edita da Manni

Articolo postato mercoledì 31 gennaio 2007
da Luigi Nacci

da Esequie del tempo. Poema (Manni, 2006)

di Sandro Montalto

I.
(prologo)
Non ricordo il mio futuro e non immagino
il mio passato
e nulla so più dire di me,
la mia quarta dimensione è sparita.
I miei disorganizzati gesti
sono morti, esposti alle intemperie, abbandonati
alla coltre polverosa del tempo.

Tossiche ninnananne hanno resa sorda
la mia fantasia catalettica
e mi giungono solo voci di folli profeti
che mi preannunciano ore passate,
liquidi feretri che sgocciolano come ere
tra le fenditure di anatomiche clessidre
e che vanno filosofando e zoppicando,
accusando il peccato dell’assenza.

Tutto da me si allontana:
il nome, la casa, ogni desiderio,
quell’attimo che fu il mio esistere.

Interminabili implicazioni e complicazioni
mi inducono ad un resoconto, un testamento.

***

III.
(lo smorzarsi della luce)
In ritardo giunsero
la luce, le altre cose, il tempo residuo
accumulandosi in ritardo con maldestra frenata.
Sei lì che disattento conti gli attimi fra gli attimi
e non ti accorgi che fra le particelle cala inspiegabilmente
la luce, non si sa come e se il tempo rallenta fino a seccarsi.
......................................................................
......................................................................
Sottratto al senno senza un oltre il cammino
si fa immagine della meridiana in ombra,
del declino della mente sopraffatta dalla mortalità,
e la sua implicita energia chiede requie
mentre declina il giorno e volgo lo sguardo
a una mano che ipnotizza i miei sensi.

Cado incosciente nel mio essere grave.

***

VII.
(sanctus)
Il tempo è un ossario millimetrato
ma violentemente vasto, inesausto, vittima
di deliri di polvere e vento di sospiri,
batterio subdolo e placido cetaceo.
Le lacrime sono sempre più dei fazzoletti
e tutte in fila verticale scandiscono il ritmo eterno
e salino della disperazione,
immagini delicate ma false
si riflettono sulla superficie curva di confessioni
d’amore e rassegnate frasi sull’eterno fiume.

Esseri orribilmente magri hanno costole come lancette
ed occhi come cavità in cui pendolano sguardi smarriti
ed il tempo non ha aree di ristoro...
gole ragliate o tagliate sono squarci che sorridono
automatici, il tempo fugge e lascia solo simulacri d’amore
essenze di assenza in sembianze umane
e amori come cristalli intagliati
le cui pupille ancora non siamo riusciti a fissare
(li peso e misuro, li serro e strapazzo ma sempre
sospetto che guardino altro, come le campane della mezz’ora
che sembrano parlare altrove).

***

XV.
(coro dei fluttuanti)
PRIMA VOCE
Noi siamo le perdute ombre
noi siamo i dimenticati dal tempo
gemiamo nell’oscurità ed aspettiamo
ci chiediamo se tornerà ma tacciamo
non sappiamo se il tempo risorgerà
sappiamo che siamo incastrati qui
nel vuoto senza tempo aspettiamo

SECONDA VOCE
non conosciamo i nostri volti
che il tempo morendo ha fissato
ma il buio divorante ha cancellato
le nostre voci sono roche
e poche le nostre pulsioni
siamo topo che rosicchia, lumaca
che sbava fissata nell’attimo
dell’ultimo fluido espresso,
siamo gesto senza motivo
e senza storia, siamo colori
senza energia,
talvolta
qualcuno alza la voce e ricorda
i tempi, passati e futuri, e pare
scendere quella lacrima trasfigurata,
come dipinta o scolpita sullo zigomo.

TERZA VOCE
Siamo bestie imbalsamate, trofei
della lotta onirica, dell’ultima
caccia all’essere avido di vita
che ora congela in eterno.
I nostri occhi sono bacinelle
di sospiri, il vento immobile
ha lasciato la traccia spettinata
del suo passaggio, il senso
di morte irride se stesso
nel coperchio della bara privato
dello scatto.

QUARTA VOCE
Questa è la terra di nessuno
questo è il luogo d’ultima eco
questo è il concime nel quale il fiore
della morte del tempo crollò
i suoi petali e seminò l’immobilità.
Si fa brivido nella mente il canto
funebre del tempo, la follia
devasta i banchetti e la pietra
è scheggia fallita nel suo moto infranto,
i nostri occhi non sono
che pozzanghere di polvere demente.

PRIMA VOCE
Il dente spezzato morde la meridiana
ed in questa terra di vuoto
in queste ore ridotte a lapide
in queste nostre menti fisse al nulla
erranti quasi dementi
barcolliamo
ci ripetiamo
erranti quasi dementi
non vediamo
palpitiamo altrove
nel dominio dell’esistenza sublimata
di cinetica energia azzerata
ricamiamo le spine, sogniamo
che il tempo defunto abbia vermi mobili
e ricrei una nicchia di vuoto

TERZA VOCE
ma si infiltra l’oscurità
fra il qualcosa e il niente
fra l’accenno e l’immobile
tra il tuo e il perso
fra il talento desiderato
e l’attesa del tempo infinito che isola
l’uno dall’altro i battiti della palpebra
al di là dell’occhio vitreo.

SECONDA VOCE
Non spero più di conoscere la gioia
dell’ora che va a compimento,
della maliziosa transitorietà delle cose
e del tempo e dello spazio
che hanno ormai colliso con l’incubo
e l’allucinazione.
Rinuncio alla voce
rinuncio alla vista che dona il profilo
rinuncio ad allietarmi con passanti anomalie.
Chiedo di essere assorbito
chiedo che cessi questo endobisbigliare
fisso, suono eterno, enigma che ha scelto
l’infinita propagazione del suo suono
nell’assenza di tempo eterno che possa zittirlo

QUARTA VOCE
ma il tempo è morto e tutto è malattia
follia è la ricerca del guizzo e stridono
le ossa che cercano il moto sul crinale.
Non siamo che ombre, il bene e il male,
l’agire per essi che ci è precluso e lontano
è il nostro poterci affermare uomini.

VOCE SCONOSCIUTA
Senta, ascolti un attimo: biancheggio qui
profetizzo al vento scolpito il fermo
proposito di un fermo restare
– ho salito la seconda scala, guardi,
mi sono voltato a destra e poi
a sinistra, sono entrato e ancora
sullo stesso suolo, aria fetida
di cimiteriale immobilità
(dal primo balcone mi sono sporto
non c’erano più scie di profumo e suoni
transitori, si gonfiava il ventre di fiori
che imbottivano mummie consegnate alla noia) –
rosa fredda dal riposo delle particelle
la tabella degli anni era incrinata
ne fiottavano le ore spaesate e gli armonici.
Una voce avviluppata, come bucata da se stessa
invariabile piano proiettivo di follia
avvolgeva la sorella di silenzio e dolori
che parlava d’esilio, asintotico delirio.

QUARTA VOCE
O tempo perduto, perché la siccità s’è imbevuta
di te, come il moto di mille agoni
ha perso la sua parola, ha regalato venti incisi
o suoni autistici, immobili picchi?
Dove ritroveremo la parola che riaprirà la catacomba
nonostante io non speri più di agire
nonostante io non viva più la sera
nonostante l’occhio cieco crei un’apertura?

PRIMA VOCE
Qui staziona il tempo fra un attimo e l’altro
tempo che preclude l’atto e l’azione
noi siamo le perdute ombre
noi siamo i dimenticati dal tempo.
Vibra la struttura sotto i colpi del sogno
anche le rocce che ci mordono lacrimano pietre
la sorella di mistero arretra fluttuando
il perimetro delle cose sembra anelare
s’incurva il processo mentale
al tempo giunga il nostro sangue
sembra per un momento risolvere la sensibile
disarmonia del basso rimbombo del fermo.

TUTTI
Lo scatto di lancetta copre il crollo.

***

XVI.
(cadaverizzazione)
Questo corpo morto che mi porto appresso,
di un cupo nero sospetto,
di un rosso scarnificato e di un giallo malato,
che mi trascino dietro con sforzo e gemito,
con i suoi stessi dolori e odori,
fasciato in bende fruste, stracci stracciati arrotolati
e bagnati per fare la guerra,
che sventro per gettare a chi mi dà fastidio
organi interni (di un colore poco ottimista),
perde un braccio mentre camminiamo,
percorre sentieri pentagonali smoccolando
e maledicendo.

Questo soma putrefatto che ho incontrato per caso
in un utero, con tutte le ghiandole impazzite
e le lingue secche, le vene intasate ed i testicoli
attorcigliati, le vertigini,
la saliva marrone, le mani nodose, le rughe profonde,
gli occhi che affogavano in un mare giallo,
la voce che moriva nelle pause di se stessa,
il membro in un perpetuo suicidarsi a precipizio,

mi guardava deluso
con le sue filosofie traditrici
con la sua fede in miti poveri e impotenti
con i suoi amori fraintesi
con i suoi propositi ridotti a stereotipi
con le sue voglie mal interrogate
con le sue fragili retrospettive
con le sue brutte cadute
...................
.......

***

XXIII.
(Occhio nella sabbia)
Preludio di un genere diffuso

mi canta la gente che va
mi narra la storia che torna su di sé

nel libro della memoria ho vergato segni
di disfatta, corrosione e oblio
ho ucciso chi mi ha ucciso
lo so tornato mattone di un labirinto di siepi

allucino sezioni di paradiso

sgretolati archivolti di contumace speranza
invocano salmodiando con meccanica vacuità
macellano uomini innocenti
nel mio limbo ardo di palpabile assenza

su una pira di zaffiro infiammato fatuo
lasciatemi morire in pace ritardataria
zigzaga la luce che perse il tramonto
l’inferno non è che presenza di uomini

fetore e putrefazione, vizio di vita e morte
amore che brulica e sgorga da cadaverica carne
pomeriggio autunnale, l’inferno di stasi e irriflessione

quanti delitti in nome del Delitto…

può il pensiero nascondere il suo farsi?
arginare l’argilla di certezza e ritrosia
fino a morire all’hic et nunc?
il volto farsi maschera di pelle e sterco
nascondere sotto i nomi propri l’identità?

una voce, un canto è attribuito alla confusione semplice
dell’antro di una conchiglia, immortalità fra flutti,
occhio nella sabbia spalancato e silente
l’età mi assolve, l’esistenza mi accusa;
altrove una vela salpa dai venti
ed un’aria d’oriente mi porta messaggi di sfericità
seguo le congetture fra le stelle in rette linee di desiderio
e ascolto le voci ridicole di rovine dal vero disegnate

ed esplosione, putiferio

su questa terra bianca sbornia di vomeri vogliosi
dissolve la nebbia ed i colli irti e raggelati finalmente penzolano
da scorsoie inquisizioni e caute carezze di saponi corrosivi

il profeta fugge
io chiamerò nel deserto
nessuno aprirà porte inesistenti
temo che la menzogna sia un inganno
io sto ripetendo in flamenco, in casaciòk una danza sacra
che già si fece, ma il tempo cessa di rinnovare e di invecchiare
come di eleggere a precedente illustre, nessuno rimembra
tutto precipita in vergogna di pianeta in pianeta

comando eserciti che vedo passare nascosto
comando la morte ad implumi soldati di rabbia
chiedo tempo per sistemare le palle nei cannoni
chiedo tempo per sotterrare meglio le mani tese degli scheletri
chiedo tempo per estrarre le unghie dalla carne
chiedo tempo per cartografare il bianco accecante delle pareti
per scivolare come un’ombra grattuggiarmi sulla loro ruvidezza

***

XXVIII.
(estasi atomica)
Il tempo si spezza, si sbriciola, schianta

ingranaggi di ansia flettono il rumore

nell’intrico di sguardi si realizza il boccheggiare della ruga

la palpebra scandisce l’aritmia di luce e buio

tra le mie mani il secolo che passa
è simulacro di se stesso, il dente
scheggia il suo congiunto e i giorni passano
fra violenze di stile

la conchiglia disegna se stessa in volute sensuali
– segue la precisa geometria del caso –
le foglie appassiscono e si fanno cartoccio
di flagrante clorofilla

meteore scheggiano inseguite
spazio adagiato sul tempo
velocità
la matassa delle ere è un groviglio di spine infuocate

visioni:
non è eccitazione della corteccia il verso-mannaia
non è diffrazione sospettosa l’assoluto che irrompe
sono i suoni che pervadono il consumarsi di tutto
sono le voci delle pietre che si sanno alfine solubili
sono la paura e lo sdegno, il fisiologico ergersi di insolubili
diatribe, la ricerca dell’eco della risata cosmica
è la storia che si sfa nel fruire della cronologia
è la voce amica che si fa incerta nella memoria

– le date sono violenze d’opinione fatte al tempo –

è l’insoddisfacente essere, l’inessenziale avere

***

XXX.
(predica)
Non assuefarti a quel po’ di tutto
che a noi frali mortali è concesso,
lo sai: anche se giuri e spergiuri
che nessuno ti aveva informato:
il poco che la vita contrappone al nulla
sarà polvere derisa.
Sarà morte, la luce totale o il buio,
l’assenza di voci, la visione che spesso
ha annichilito le notti difficili,
macabri presagi di inutilità.
Tu temi non la morte ma la vita
che è strage di vivi,
tu già perfetta immagine nella mente
ritorni e conchiusa attraversi le ore,
hai la mano che accarezza e strappa
e lo spirito colmo di illusioni.
Mi insegni come va serbato il ricordo
della memoria e come va sorbita
la quiete prima del tempo e del desiderio,
quella pulsione all’essere che par d’essere vivo.

Sento la tentazione del non esistere,
l’esangue caducità dell’essere
conscio del ritardo che affligge il tutto.
Consapevole del dolore e della falsa retorica,
disperato come il più sfregiato degli uomini,
colui che piange e la cui smorfia
sembra un ridere lieve.

***

XXXI.
(requiem)
Ogni sentenza è una cicatrice
ogni poema è una gogna
ogni canto è un requiem.

Non ne so molto dell’essenza delle cose
ma presumo che sia una frontiera valicabile
in un tempo infinito;
penso che le stagioni conservino la loro furia
rinvigorita dai riti sacrileghi al dio delle macchine;
penso che siamo fiumi nel mare
e quello che è stato sarà - ma non si noterà
persi nel consolante Tutto non abbracciabile.
Le voci hanno molti dei ma il silenzio che scoppia
è la misura reale del tempo, l’oscillare infinitesimo,
i minuti roventi della notte insonne buttata là.

Solo per questa volta che sia libero il rifrullo
dei tuoi pensieri, la bussola dei tuoi esempi
(ti sia maestro il gesto dell’insegnamento,
non l’idea) possa roteare attorno all’ombelico.
Non ti macerare nelle paure di ieri: abbi paure
e soluzioni di oggi
ma ero felice
come solo chi odora la ricompensa e prevede la carie
come può chi ha cancellato l’infanzia di inganni
e trame di indifferenza al profondo tessuta.
Essere in nessun luogo sarebbe stato
la perfezione.
Il passato non è che un punto non orientabile
nella grata del tempo.

Ma ora, qui, non si ammettono distanze di luce
e il peso non è che un cadere a uno stadio successivo
mentre la strage dei corpi si libera dei nomi
con la clava dell’impazienza – mentre il senso non è
che retaggio di antiche illusioni e traccia di odierni trucchi.
Al mio posto ho messo una pausa
ed ho atteso il giorno farsi trono dell’intelletto
ma in fisso occhio tutto si è consumato. Il roveto brucia
e di spine s’infiamma la rosa profonda la cui gloria
fiammeggiante si dipinge con distratti pennelli.
Nella forma chiusa dell’esegesi la storia si squadra
e compatta si snocciola in diligente sequenza
mentre in pacifico letargo l’orologio ticchetta coatto.

Altre ore richiedono altre parole, e voci che talvolta
non avrei immaginato di dire - urge l’attimo,
ma il tempo sta nelle cose e nel loro essere pensate,
nel mutare di ciò che le circonda e influenza.

In poesia ci viene restituita un’immagine
del nostro essere attuale, l’imprevedibile somma
di ogni pienezza dei tempi, convegno di ogni nascita
sempre uguale – ma il presente è inafferrabile.

*

Tu non sai la tenacia: chi sa
poco lieto sta al mondo ma con forza
degusta i più dolci antidoti alla demenza
e sa farsi pugnale del sacrificio
dei falsi innocenti. In forma sottile
la parola sa scagliarsi come aquila
e scacciare la paura
sa lasciare a te il cadavere di una
sopportazione vana
a me donare la gemma del più
inaccessibile fiore.
Preme nella mia mente la tentazione
di esistere, di farmi vaso in cui germogli
l’assalto delle parole lungi da ogni
museale glossolalìa.
Non temere
la morte come termine del tempo donato
dallo spazio dilatato di una nascita:
vagisce la tomba e non basta una vita
ma dopotutto ogni istante muore in sé
e non se ne avvede.

Da così tanto tempo il sasso
attende il lancio nella mia mano
che le ossa mi si son fatte pietra;
è impuro l’occhio che coglie riflessi
nel vivere profondo di un attimo svagato;
già declina il nome dell’ombra
scaturita da un passante che scandisce il ritmo.
La morte è il decubito di una mente
la promessa mendace di esistenze insostituibili
la frode
la pietà che è suggello dell’inganno:
sulla porta di casa occorre voltarsi di scatto
scomparire nel trambusto, non salutare né lasciare
parte del proprio affetto.
Occorre
sradicare ogni legame in radice inoltrato nel suolo
e schivare ogni occasione di dolore, ché generosa
è di suo la malasorte. Ospitale è il tuo corpo,
sola mi consola la tua mente che si fa oasi.

***

XXXIV.
(agnus - epilogo)
Sulla palude pelle di crepe e terra
scheletri immemori biancheggiano
la brina è un sogno e un brivido
lacrima l’occhio che il riverbero offende
ombre si allungano e si perdono
in anfratti misteriosi, misteri in disuso.
La pelle dell’umano reca traccia
del livido contatto di baci traditori
il volto è il relitto abbandonato
di un sorriso che nessuno colse.
Lo sfondo parla di montagne trafitte
da tuffi di rocce a precipizio,
sanguina il volto del martire
di ciò che non sa, esploso
al cospetto dell’odio di altri ad altri
indirizzato. Presto sarà pascolo di vermi
e postribolo di necrofili
il corpo che fu d’amore
e non ascenderà a più nobili usanze
post mortem. “E’ grande” tutti recitano
– la stele nera attende -
ma inumana è la sorte del comune soffrire
umano. Un nobile mare avvicina coste
brulicanti di disperazione e progetti d’inferno
la storia comune si fa crogiolo di rancori
ed è vano anche il lacrimare dei muri.
Hanno il marchio dei vinti
i greggi con il volto segnato dal macello
e non c’è garza che sappia cicatrizzare
l’acefala ferita nell’intimo patire.
Sul cranio cornuto di croci trafitte
si fa rivolo un sangue generico
che filtra a nutrire arbusti intrecciati
davanti a pesti cadaveri di peccatrici
da una neve di sassi mitragliati. Sangue
che torna in su all’origine del simbolo
e lo vivifica in reciproco scambio di orrore.
Il fiore sboccia e la vittima involve
meno che a bestia o cosa ridotta
e si fa purulenta la ferita ormai onnivora
gialla di un miele sposato al fiele.
E’ un feto vagante fra i pianeti
questo arto fantasma della fratellanza,
è tumefatto e irride il cordone che brulica
nel desiderio di vulve strappate da corrompere.
Aureola di siringhe cinge il capo in agonia
percorso da scosse diagonali e bagliori nefasti
all’occhio che distoglie lo sguardo. Inciampa
nella rete dei pescatori di ovuli la belante teoria
dei prostrati in cerca di un senso extra.

Ogni visione del tempo, verticale e orizzontale
o in anello organizzata o in retta linea interpretata,
fatica a guadagnare la scena mentre starnazza
l’ennesimo tentativo di creare soppalchi al mondo,
il pesce e l’aquila sono cacciati a forza nel congelatore
ridotti a mescolanza di neutralizzati sensi ancestrali.
L’uomo è preda facile, odoroso di pianto e di storia,
pronto però a lucrare sull’angoscia di altri estinti
in vita. Lo vince la miseria del sé, lo assolve
il regnare della sua bassezza nel suo stesso inferno.
Etica ed estetica lasciano il posto alla cosmesi.

Ma il tempo si ferma nel solco di un’apatia cosmica
e non è cataclisma o divina punizione, se è lecito
interpretare: il tempo suicidato è sorte già vista,
è sguardo fisso nello specchio di abissi sinceri,
è storia di sempre, mai letta, della natura umana
invasata in uno schifo perenne, membra-ribrezzo.

Tu, che raccogli il cimento dell’obolo
ed accusi la fimosi delle idee intrappolate nel comodo:
se esisti, immagine di cattedrali atomizzate in proiettili
e palinsesto di sure dai deviati sensi,
se esisti, uomo, appari a te stesso aggregato in popolo
ed annuncia la capitolazione del tuo regno su paludi edificato.
Forse nella morte è la forma, ma nell’odio è l’innato abisso.

I colpi dei chiodi nei polsi riecheggiano inutili al minareto.
Tutto esce e grida la propria finitezza all’universo
e la risata in eterna risposta si fa attendere fra le stelle.

***

Sandro Montalto è poeta, critico letterario, musicista, ludolinguista e autore teatrale, redattore e collaboratore di quotidiani e riviste nazionali ed estere. Dirige due collane letterarie. Ha pubblicato libri di poesia, saggi, una raccolta di aforismi e una di prose. Ha curato molti volumi; l’ultimo, del 2006, è Umberto Eco: l’uomo che sapeva troppo (ETS).

4 commenti a questo articolo

SANDRO MONTALTO: ESEQUIE DEL TEMPO
2007-02-08 14:13:32|

n.g. = NEVIO GAMBULA


SANDRO MONTALTO: ESEQUIE DEL TEMPO
2007-02-05 22:26:08|di Sandro Montalto

Sono lieto della generosa segnalazione dei miei testi, e del primo e ringalluzzente commento lasciato (da chi??).

Non sta a me spiegare più di tanto: se un poeta sente di dover spiegare molto, penso, significa che non ha scritto bene ciò che il cor ditta dentro, se posso citare.

Beckett (come Cioran) è certamente uno dei miei più grandi amori, comunque, al quale ho peraltro nel 2006 dedicato una monografia intitolata "Beckett e Keaton. Dal comico all’angoscia di esistere".

SM


SANDRO MONTALTO: ESEQUIE DEL TEMPO
2007-01-31 21:17:48|di Luigi

Mi piacerebbe che venisse qui a risponderti Montalto, ma da quanto ho capito non è un amante del web. Comunque provo a chiedergli di fare un salto!


SANDRO MONTALTO: ESEQUIE DEL TEMPO
2007-01-31 17:29:23|

piacevole scoperta, questi versi metricamente disordinati e densi … direi: poesia-cioran, o dell’impossibilità di creare automatismi tra storia e senso … direi anche: svenimento della misura … meglio: sospensione di ogni corsa-metro in una indecisione (voluta!) incessante: tutto rimbambisce nella sospensione, desideri, storia, divenire, la stessa poesia … né preghiera né lamento … direi canto strozzato di insoddisfazione (“cicatrice/gogna/requiem”) … “Etica ed estetica lasciano il posto alla cosmesi” è verso notevole, come tutto l’epilogo … quanto c’entra lo “schifo-perenne” (nascere fu la mia morte) beckettiano? … tutto è deriva: forse l’uomo dovrebbe sorpassarsi per rifarsi diverso?

applaudo

n.g.


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