Absolute Poetry 2.0
Collective Multimedia e-Zine
Coordinamento: Luigi Nacci & Lello Voce
Redatta da:
Luca Baldoni, Valerio Cuccaroni, Vincenzo Frungillo, Enzo Mansueto, Francesca Matteoni, Renata Morresi, Gianmaria Nerli, Fabio Orecchini, Alessandro Raveggi, Lidia Riviello, Federico Scaramuccia, Marco Simonelli, Sparajurij, Francesco Terzago, Italo Testa, Maria Valente.
Il 4 settembre scorso, ad Ancona, all’interno del Festival Adriatico Mediterraneo, si è svolto un poetry slam internazionale, ideato e condotto da Luigi Socci. Ne è nato un volume, per la cura dello stesso Socci, di cui qui si presentano alcuni testi, accompagnati da un brano dell’introduzione.
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Un poetry slam d’autore
Non è che se ne sappia poi molto, qui da noi, di quel che accade nelle patrie lettere di altre patrie. E tale condizione di inconsapevolezza (o di ignoranza, altrimenti detta), tende ad aumentare se ci si va ad occupare di quel particolare campo della ricerca letteraria contraddistinto dall’insopprimibile “necessità” dell’andamento a capo anticipato prima del bordo pagina. Se ci si occupa di poesia, insomma. Il fatto, di per sé, non dovrebbe destare sorpresa, né tantomeno scandalo. Non è questo il luogo deputato né la voce adatta per intonare il classico lamento sulla perdita del mandato sociale del poeta contemporaneo né per pronunciare severe sentenze di sdegno verso l’ingratitudine dei tempi e dei costumi. La voce mantiene un tono tepidamente referenziale, le vesti sono intatte. Convinti come siamo, del resto, che i poeti se la siano un pochino anche andata a cercare. Un po’ più di perplessità, invece, la desta la presa di coscienza, non altrettanto immediata, che il disinteresse nei confronti della poesia prodotta in altre lingue tenda ad aggravarsi, in modo inversamente proporzionale, mano a mano che più ci si avvicina ai nostri confini nazionali. Mano a mano che lo straniero ci comincia a diventare familiare. Non ci si pèrita, infatti, in Italia, di tradurre e proporre, allo sparuto manipolo di consumatori di versi, tanta poesia in lingua inglese d’ogni provenienza (il secolo americano appena passato non sarà stato americano per caso visti gli alti risultati raggiunti anche in poesia, e di poeti inglesi e irlandesi bravi ce ne sono stati e ce ne sono ancora a bizzeffe), ma anche sudamericana, orientale, perfino nordica per un groviglio di ragioni che vanno dall’esotismo alla contingenza storica, dalla vocazione di qualche singolo specialista al puro e semplice caso fino alla ragione più “ragionevole” di tutte, quella cioè dell’abbondanza economica di un’industria culturale rispetto ad un’altra. Latita invece, ci sembra, un serio e continuativo impegno di traduzione e diffusione della letteratura a noi più limitrofa, più adiacente, più dirimpettaia. E latita lo scambio, il confronto, la comunicazione in entrambi i sensi. Teorema fragile questo, me ne rendo già conto da solo, nel momento in cui provo ad enunciarlo. Balzano alla mente le numerose piccole (ma nemmeno tanto) eccezioni rappresentate dal coraggio di piccoli editori locali, dalla pluriennale meritoria attività di alcune riviste cartacee (il caso di «Poesia» dell’editore italo-greco Nicola Crocetti, che proprio su questo instancabile lavoro di ricognizione ha costruito la propria fisionomia editoriale, su tutti), le autentiche perle isolate rintracciabili nei cataloghi degli editori più blasonati, come la recente, interessantissima, antologia della poesia israeliana curata per l’editore Einaudi da Ariel Rathaus e il sotterraneo lavorìo di coloro, per lo più appartenenti alle giovani generazioni, che hanno trovato, nell’istantaneità (e nella gratuità) in continua espansione della comunicazione in rete, l’antidoto al clima asfittico della società letteraria nazionale, permettendosi (e permettendoci) salutari sopralluoghi virtuali con relativa importazione di reperti (più o meno preziosi) d’oltrefrontiera. Non che questo sia sufficiente a delineare un quadro completo di ciò che ci accade intorno, né quadri completi possono esistere per una situazione letteraria (e umana e politica), in continuo fermento e metamorfosi, che neanche la forma d’arte teoricamente più obbiettiva, vale a dire la fotografia, potrebbe “catturare” se non con il risultato di un’immagine irrimediabilmente “mossa”. Neanche questo smilzo libretto che avete per le mani ha, naturalmente, questa velleità. Si tratta di una minima pezza d’appoggio cartacea, consentita dal supporto del Festival Adriatico Mediterraneo, di cui è emanazione editoriale e con il quale condivide il piacere di lanciare un segnale e di rappresentare uno stimolo al dialogo e alla conoscenza reciproca (anche in campo artistico e umanistico) tra chi condivide certi interessi e che svolge la propria attività ad essi connessa, in paesi che si affacciano sulle diverse sponde del Mare Nostrum. E con una particolare attenzione a quelli balcanici (almeno per quest’anno). Senza la presunzione della definitività ma con il realistico atteggiamento di chi cerca di tratteggiare una mappa a occhio nudo, necessariamente provvisoria, mettendone a fuoco solo alcuni particolari e lasciandone in bianco una gran parte.
Luigi Socci
*
Gli autori antologizzati sono: Elisa Biagini, Ana Brnardić, Arben Dedja, Nader Ghazvinizadeh, Stanka Hrastelj, Andrea Inglese, Senadin Musabegović, Luigi Nacci. Onde evitare un post sovraccarico, ho compiuto una (parzialissima) selezione - per chi fosse interessato al libro, le info editoriali si trovano a fondo pagina.
Stanka Hrastelj
Perché non ci guardiamo più
l’incontro di due sguardi di solito dura
un breve attimo ho misurato con precisione
la lunghezza la durata e con metodo scientifico
ho stabilito l’unità di misura 1 blick
gli sguardi che durano 2 blick sono pericolosi
tra gli occhi delle due persone in un istante
(0,4 blick) si forma uno spesso intreccio di
funi di acciaio oso dire un vero e proprio fascio
composto di innumerevoli cavi
davvero grosso forte resistente
se si tende può ferire chi in quel momento
si trova sul posto o lì nei paraggi le lesioni
possono essere gravi
in caso di sguardi che durano 2,5 blick o più
in un istante di istante (0,02 blick) al cavo d’acciaio
si appende una cabina da funivia per 24 persone
in essa caronte traghetta le anime dei morti dall’ade
agli occhi la testa il cuore il sangue il corpo lo spirito l’anima
[l’anima!
c’è gente che in un attimo di debolezza
si mette a guardare intorno c’è di che avere paura
(traduzione di Darja Betocchi)
# un istante di istante ≠ h2 ==> h2 ≠ 0,16 blick
*
Anatomia da camera
È autunno. Alle tre di pomeriggio la mia camera
è l’ambiente più caldo dell’appartamento.
Tutti vorrebbero entrarci, anche se la scrivania
è piena di oggetti taglienti di metallo inossidabile.
Li prendo in mano con grande calore
e dolcezza: sono molto sensibile.
Nell’orto il crescione si espande come schiuma
marina che da un momento all’altro traboccherà
oltre gli orli della salvia e del rosmarino.
Alla mamma si espande la cateratta,
ma non trabocca oltre la linea delle palpebre. Per lei
prendo il bisturi e da sinistra le squarcio
la pupilla. Le piace se lo faccio con lentezza:
si sente sicura.
Papà si lascia aprire il torace. Incido
la vena un centimetro sopra l’atrio destro e
vi inserisco un dito. Le pareti sono prive di depositi
di colesterolo, il che è segno
di longevità.
Chiedo loro di ritagliarmi alcune strisce
di pelle, lunghe dalla testa ai piedi.
Papà traccia, mamma incide. È molto
abile, mia mamma, le bastano le unghie, non ha
bisogno di alcun oggetto tagliente.
Con le strisce intrecciamo una corda,
sembra una liana rosa. La fissiamo
al soffitto ed emettendo urli dondoliamo dalla
parete orientale a quella occidentale. Chiamiamo
l’un l’altro Tarzan. La giornata è fresca e profumata.
(traduzione di Darja Betocchi)
***
Andrea Inglese
da Nei paraggi, asfalto
2.
Qui tutto è strafinto, ingenui
credono non me ne renda conto,
che non sappia ammaestrati
quei bambini dietro la rete
metallica, quando parlano
alterando la voce come sciamani,
o la gazza, nell’olmo troppo sottile,
che emette elettronica un suono,
e rimane bloccata al congegno
del ramo.
Un telefilm ha spiegato
il senso e la durata media
della caccia, quando non bastano
animali, ma uomini devono
nutrire altri uomini lavorando,
o era la favola delle conquiste:
i cavi sottomarini, i ponti di vetro,
le poltrone volanti. Altri fenomeni,
come incidenti aerei, attacchi
di panico e cadute dai balconi,
possono essere con poco sforzo
memorizzati.
Qualcuno tiene a mente
anche gli appuntamenti di cui
ci scordiamo. L’epidemia
che già circola da anni
non è visibile ad occhio nudo.
Allo specchio sto al gioco: vedo
un volto che ho imparato a riconoscere,
anzi lo faccio mio quando parlo,
anche se poi le parole
vengono da paraggi
anomali, e per questo giungono
in superficie offuscate.
A volte neppure
varcano le labbra.
*
3.
Guardali, come ostinati scendono,
e cedono ad ogni passo, e dimenticano
a lato, indietro, poche cose, tutte
quelle che hanno, un giornale,
un sacchetto di semi, un bicchiere
di plastica, ma anche i nomi
scordano, di persone persino
vicine, che scendono con loro,
con l’acqua fino all’inguine,
e poi le alghe e la schiuma sudicia
al petto, e dopo, per la pressione,
la difficoltà del respiro,
quando anche la vista cala,
scendono del tutto, la testa sotto,
fino a capovolgersi, perduti
i punti di riferimento, la luce
offuscata, verde, nessuna
possibilità di risalita, più.
***
Senadin Musabegović
La patria cresce
Mentre ci accompagnano per un lungo corridoio,
lasciano che
i peli dei nostri colli appena rasi
si appiccichino al ruvido colletto della camicia,
come sulla mano dell’ufficiale
sulla quale i calli gialli
sono stati
incisi.
Ci spingono nello spogliatoio, ci spogliano
e lasciano che
nella stanza dove gira solo il ventilatore:
le tracce dei calzettoni si arrossino lungo le vene pallide,
l’elastico della mutanda arricci la pelle accanto all’ombelico buio,
la bianca canottiera sulle spalle due linee rosse
imprima.
Ci mettono in fila e ci portano alle docce
lasciano che
l’acqua fredda
ci spazzi via tutta la vergogna
iniettata nella pelle elettrica
dalle dita dei padri.
Ci imbrigliano in uniformi,
ci gridano addosso
lasciano
che il calore della madre terra
sotto tutti i bottoni sul petto
il nostro respiro appiani.
Al posto di baci di donna
lasciano che il rossetto delle stelle rosse,
nelle quali si è aggrumato il sangue degli eroi,
sulla fronte sudata si spalmi.
La sera ci danno delle riviste
porno,
lasciano che
gemiamo insieme mentre impugniamo i nostri cazzi.
Qui non c’è intimità,
non ci sono muri di separazione nei cessi
lasciano
che
ci accucciamo
l’uno di fronte all’altro con
le sopracciglia aggrottate
mentre le vene azzurre
si sforzano.
Lavati i piedi ci infiliamo sotto le coperte
sogniamo che le lame dei rasoi passano sulle vene;
lasciano che
goccioli piano il sangue sulle lenzuola appena distese,
sporchiamo i pavimenti lisci,
la polvere si trasforma in grumi rossi lungo le fessure
del parquet,
bagniamo i secchi petti della terra natia con il nostro futuro.
“Alzati!”
Confusi,
mentre con la punta delle dita infiliamo il bottone di plastica
nello stretto buco
sul colletto sudato,
ci lasciano
cercare in noi stessi il nemico interiore.
(traduzione di Danilo Capasso)
*
Giuramento
Al mio nono compleanno, nel 1979, dopo la festa, mio padre con un coltello da cucina, con il quale mia madre aveva tagliato la torta, aveva inciso la mia altezza sull’anta dell’armadio della mia stanza. Sul coltello si erano attaccati i resti bianchi e azzurri della panna che copriva la superficie di cioccolata della torta, ricordandomi la figura di un vecchio, accigliato e scontento del mio entusiasmo, perchè in quel momento avevo pensato che agli occhi dei miei genitori fossi diventato il centro del mondo. Mentre mio padre passava la brillante lama del coltello sui miei capelli, la panna si attaccò ai miei ciuffi. Allora sull’anta di legno, sulla quale ridacchiavano le figurine dei calciatori, mia madre con una matita rossa, accanto a loro, segnò anche la mia altezza: un metro e trentaquattro.
Al mio decimo compleanno, nel 1980, sull’anta dell’armadio, con una tinta bianca venne segnata la mia altezza: un metro e quarantadue. Durante la festa ero triste, perchè mi sembrava di non poter mai raggiungere l’altezza di Tito che mi sorrideva, vitreo, dall’angolo sinistro della stanza.
Con le adidas rosse divise da tre linee azzurre, una maglietta bianca lacoste, con il marchio del coccodrillo che si piegava su se stesso dando una forza nuova al mio corpo e con i levis che non si potevano piegare intorno alle ginocchia, nel 1981, con una tinta blu venne segnata la mia altezza: un metro e cinquantasei. Tutti in famiglia erano entusiasti della mia crescita.
Sull’anta dell’armadio c’erano i tre colori della bandiera jugoslava che indicavano la mia crescita.
Al giuramento militare, nel 1989, grazie alla mia altezza ero in prima fila accanto alla bandiera jugoslava. Nessuno si accorse che proprio nel momento più atteso della celebrazione, mentre giuravamo sulla nostra vita fedeltà alla patria, dalla punta del mio fucile cadde la baionetta rimbalzando tre volte sul freddo asfalto.
Nel 1993 ero alto un metro e novantuno. Stavo accanto a una finestra alta due metri e guardavo un morto, colpito da un cecchino, steso su quattro mattonelle del marciapiede. Toccava l’asfalto con le dita mentre il sole rimbalzava tre volte sul suo braccialetto d’oro. Le goccioline di vapore si ammucchiavano sulla finestra, non sono riuscito a contarle:
sfilavano i secondi:
uno,
due,
tre,
quattro…
In un attimo ho sentito sulla testa la riga con la quale la mano di mio padre misurava il confine tra me e il mondo.
(traduzione di Danilo Capasso)
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