Absolute Poetry 2.0
Collective Multimedia e-Zine

Coordinamento: Luigi Nacci & Lello Voce

Redatta da:

Luca Baldoni, Valerio Cuccaroni, Vincenzo Frungillo, Enzo Mansueto, Francesca Matteoni, Renata Morresi, Gianmaria Nerli, Fabio Orecchini, Alessandro Raveggi, Lidia Riviello, Federico Scaramuccia, Marco Simonelli, Sparajurij, Francesco Terzago, Italo Testa, Maria Valente.

pubblicato martedì 19 novembre 2013
Blare Out presenta: Andata e Ritorno Festival Invernale di Musica digitale e Poesia orale Galleria A plus A Centro Espositivo Sloveno (...)
pubblicato domenica 14 luglio 2013
Siamo a maggio. È primavera, la stagione del risveglio. Un perfetto scrittore progressista del XXI secolo lancia le sue sfide. La prima è che la (...)
pubblicato domenica 14 luglio 2013
Io Boris l’ho conosciuto di sfuggita, giusto il tempo di un caffè, ad una Lucca Comics & Games di qualche anno fa. Non che non lo conoscessi (...)
 
Home page > e-Zine > "Siamo sicuri che l’Italia di Dante sia messa meglio del Sudafrica?"

"Siamo sicuri che l’Italia di Dante sia messa meglio del Sudafrica?"

(se lo chiede Michele Smargiassi; e De Mauro dice: "Per il futuro economico del nostro paese migliorare l’italiano degli imprenditori, dei professionisti, dei politici, è perfino più vitale e urgente che migliorare i salari dei dipendenti"- La Repubblica.it)

Articolo postato mercoledì 6 febbraio 2008
da Luigi Nacci

Un "dottore" su cinque ha difficoltà a scrivere. Per non parlare della lettura, oggetto misterioso

Nell’Italia dei laureati che non sanno scrivere

di Michele Smargiassi

Dirimere un’ambiguità lessicale è un problema per un laureato su cinque. A dir la verità, anche solo comprendere la frase che avete appena letto è un problema per un laureato su cinque. "Termini come dirimere, duttile, faceto, proroga si trovano comunemente sui giornali, ma per molti italiani con pergamena appesa al muro sono parole opache". Luca Serianni, linguista all’università di Roma 3, ne fece esperienza diretta un giorno nell’ambulatorio di un dentista cui s’era rivolto per un’urgenza. "Con le mie lastrine in mano chiamò al telefono un collega per avere un parere: "Senti caro, aiutami a diramare un dubbio..."". E il professore sudò freddo: "Un medico che non sa maneggiare le parole è un medico che non legge, quindi non si aggiorna, quindi forse non sa maneggiare neanche un trapano".

Analfabeti con la laurea. Non è un paradosso. E nessuno s’offenda: ci sono riscontri scientifici. Il report 2006 del ramo italiano dell’indagine internazionale All-Ocse (Adult Literacy and Life Skill), coordinato dalla pedagogista Vittoria Gallina, non lascia spazio a dubbi: 21 laureati su cento non riescono ad andare oltre il livello elementare di decifrazione di una pagina scritta (il bugiardino di un medicinale, le istruzioni di un elettrodomestico).

E non sanno produrre un testo minimamente complesso (una relazione, un referto medico, ma anche una banale lettera al capo condominio) che sia comprensibile e corretto. Una minoranza? Sì: un laureato italiano su due, per fortuna, raggiunge il quinto e massimo livello. Ma è una minoranza terribilmente cospicua, anche se si maschera bene. Negli Usa tre anni fa fu uno shock scoprire che i graduate fermi al livello base sono il 14%. Da noi il buco nero si manifesta a tratti, in modo clamoroso, come un mese fa, a Roma, al termine dell’ultimo dei concorsi per l’accesso alla magistratura. Preso d’assalto da 4000 candidati, in gara per 380 posti. Nonostante questo, 58 posti sono rimasti scoperti: 3700 candidati, tutti ovviamente laureati (magari anche più) hanno presentato prove irricevibili sul piano puramente linguistico. "Per pudore vi risparmio le indicibili citazioni", commentò uno dei commissari d’esame, il giudice di corte d’appello Matteo Frasca.

Il campanello d’allarme dovrebbe suonare forte. Non si tratta più di scandalizzarsi (e divertirsi) per gli strafalcioni nozionistici degli studenti. No, episodi come il concorso di Roma mettono a nudo il grado zero del problema. Stiamo parlando di chi è senza parole. Di chi dopo cinque (sei, sette...) anni di studio universitario non è riuscito a mettere nella cassetta degli attrezzi le chiavi inglesi del sapere: grammatica, ortografia, vocabolario.

Analfabetismo: anche questa parola sembrava scomparsa dal lessico, ma per esaurimento di funzione. Consegnata ai ricordi in bianco e nero del maestro Manzi. Falsa impressione, perché di italiani che non sanno leggere né scrivere se ne contavano ancora, al censimento 2001, quasi ottocentomila. Se aggiungiamo gli italiani senza neanche un pezzo di carta, neppure la licenza elementare, arriviamo a sei milioni, con allarmanti quote di uno su dieci nelle regioni meridionali. Ma almeno sono numeri che scendono. Aggrediti dal lavoro di meritorie istituzioni come l’Unla, capillarmente contrastati dai corsi ministeriali di alfabetizzazione funzionale per adulti dell’Indire (frequentati l’ultimo anno scolastico da 425 mila persone, tra cui, guarda un po’, 30.407 laureati, in gran parte, però, stranieri). Nobilmente contrastato ai livelli più bassi della scala del sapere, però, ecco che l’analfabetismo riappare dove meno te l’aspetti: ai vertici. Gli studiosi, è vero, preferiscono chiamarlo illetteratismo: non si tratta infatti dell’incapacità brutale di compitare l’abicì, di decifrare una singola parola; ma della forte difficoltà a comunicare efficacemente e comprensibilmente con gli altri attraverso la scrittura. Ma non è proprio questo l’analfabetismo più minaccioso del terzo millennio? Nadine Gordimer, per il bene della sua Africa, è di questo analfabetismo relativo che ha più paura: "Saper leggere la scritta di un cartellone pubblicitario e le nuvolette dei fumetti, ma non saper comprendere il lessico di un poema, questa non è alfabetizzazione". Siamo sicuri che l’Italia di Dante sia messa meglio del Sudafrica?

Proprio no. Per niente sicuri. Quanti, del nostro già magro 8,8% di laureati (la media dei paesi Ocse è del 15%), leggono ogni giorno qualcosa di più delle réclame e delle didascalie della tivù? Quanti invece sono prigionieri più o meno consapevoli di quella che Italo Calvino chiamò l’antilingua? Non saper scrivere nasconde il non saper leggere. Sette laureati su cento non leggono mai (e sono quelli che hanno il coraggio di dichiararlo all’Istat: mancano quelli che se ne vergognano). Altri sette leggono solo l’indispensabile per il lavoro: e siamo già vicini al fatidico uno su cinque. Ma andiamo avanti: uno su tre possiede meno di cento libri, praticamente solo i suoi vecchi testi scolastici. Uno su cinque non ha in casa un’enciclopedia. Quasi nessuno (73 per cento) va in biblioteca, e quando ci va, raramente prende libri in prestito. "Manca il tempo", "sono troppo stanco", le scuse più comuni. Ma ci sono anche quelli che non accampano giustificazioni imbarazzate, anzi rivendicano il loro illetteratismo come atteggiamento moderno e aggiornato: "leggere oggi non serve", "è un medium lento", "preferisco altre forme di comunicazione sociale".

"La società sprintata", come la chiama il pedagogista Franco Frabboni, preside di Scienze della formazione a Bologna, uno degli autori della riforma universitaria, è arrivata negli atenei. E gli atenei la assecondano: "La trasmissione del sapere universitario è regredita dalla scrittura all’oralità", spiega. Nelle aule della nostra istruzione superiore, il grado di padronanza della lingua italiana non è mai messo alla prova. Persino l’arte dell’argomentazione orale, ponte fra i due universi semantici, è svanita, racconta Frabboni: "Professori sempre più incerti fanno lezione con diapositive, seguendo una traccia fissa. Ai laureandi si lascia esporre la tesi con presentazioni Powerpoint. I "test oggettivi" d’ingresso sono crocette su questionari". La competenza linguistica non è considerata un pre-requisito indispensabile: "Devi guadagnarti cinque crediti per la lingua straniera, e cinque per l’informatica, ma non c’è alcun obbligo per quanto riguarda la buona pratica dell’italiano". Un tacito accordo fissa tetti massimi di lettura ridicoli per i testi d’esame: "Quando un professore assegna più di 150-180 pagine, davanti al mio ufficio c’è la fila di studenti che protestano".

Protestano, e poi si sfracellano contro il muro dell’esame. Sugli esiti dell’idiosincrasia per la lettura, agenzie private di tutoraggio hanno costruito imperi aziendali, come il Cepu, diecimila studenti l’anno. "Ci chiedono di aiutarli a passare un esame", racconta il responsabile marketing Maurizio Pasquetti, "ma scopriamo quasi sempre che alla radice c’è la difficoltà o la paura di affrontare testi scritti. Escono da scuole superiori abituati a libri di testo ancora simili a quelli delle elementari, con testi spezzettati, già schematizzati, con tante figure e specchietti: di fronte al terribile "libro bianco", fatto solo di pagine di scrittura continua, restano terrorizzati".

"In Francia e Germania gli atenei organizzano gare di ortografia ", sospira il professor Serianni. Da noi è difficile perfino reclutare iscritti per i laboratori di scrittura che alcuni atenei, allarmati, hanno messo a disposizione degli studenti in debito di lingua. Quello di Modena è affidato al professor Gabriele Pallotti: "Di solito comincio da virgole e apostrofi...". Pallotti nel cassetto tiene una cartellina di orrori: email, biglietti affissi alle bacheche, "esito profiquo", "le chiedo una prologa", "attendo subitanea risposta". Ma correggere le asinate non è ancora abbastanza. "Saper annotare correttamente parole sulla carta non è saper scrivere" spiega. "Parlare e scrivere sono due diversi modi di pensare. Troppi ragazzi escono dall’università sapendo solo trascrivere la propria oralità, ovvero un flusso continuo di idee non ordinato e difficilmente comunicabile. Cioè restano mentalmente analfabeti".

Ma se avessero ragione loro? Perché alla fine si scopre che il laureato analfabeta non fa necessariamente più fatica a trovare lavoro rispetto ai suoi quattro colleghi più letterati. le imprese non sembrano granché interessate a selezionare i propri quadri dirigenti sulla base delle competenze linguistiche di base. E non perché non si accorgano delle deficienze dei loro nuovi assunti. Parlare con Carlo Iannantuono, responsabile delle risorse umane per la filiale italiana della Sandik, una multinazionale del ramo macchine per cantieri, reduce da una lunga selezione di personale laureato, è come farsi raccontare una serata allo Zelig: "Quello che se potrei, quello che s’è laureato per il rotolo della cuffia (e si vede), quello che glielo dico così, an fasàn (e io: e dü pernìs...)...". Gli analfabeti conclamati, calcola, sono solo un 3-4 per cento, ma molti altri non sembrano pienamente padroni delle loro parole. E lei li assume lo stesso? "Dipende", si fa serio, "noi cerchiamo bravi venditori. Quello che deve discutere con i dirigenti della Snam è meglio sappia i congiuntivi. A quello che deve convincere un capocantiere della Tav forse serve di più un buon paio di stivali di gomma".

"Non c’è alcuna sanzione sociale verso l’analfabetismo con laurea", commenta con sconforto Tullio De Mauro, il padre degli studi linguistici italiani. Forse perché non si riconoscono immediatamente, si mascherano bene da alfabetizzati. "Fino a cinquant’anni fa l’incompetenza linguistica era palese: otto italiani su dieci usavano ancora il dialetto. Oggi il 95 per cento degli italiani parla italiano. Ma che italiano è? Solo in apparenza parliamo tutti la stessa lingua. Quando si prende in mano una penna, però, carta canta, e le stonature si sentono". Non è una questione di stile: l’analfabetismo laureato può fare danni concreti. Il paziente che legge sulla sua prescrizione medica "una pillola per tre giorni", alla fine del terzo giorno avrà preso tre pillole o una sola? "Ci sono guasti immediati come questo. Ci sono guasti a medio e lungo termine, e ben più pericolosi. Chi non legge smette anche di studiare. In Italia solo un venti per cento di quadri segue corsi di aggiornamento: quattro volte meno della media europea. Una classe dirigente male alfabetizzata, quindi non aggiornata, è la rovina di un paese, molto più di un crollo della Borsa". Chi parla male pensa male e vive male: è ormai un aforisma, quella battuta di Nanni Moretti. Se pensa male anche solo un quinto dell’élite dirigente, per De Mauro è un’emergenza nazionale: "Per il futuro economico del nostro paese migliorare l’italiano degli imprenditori, dei professionisti, dei politici, è perfino più vitale e urgente che migliorare i salari dei dipendenti. E non lo prenda come un paradosso".

(LA REPUBBLICA, 6 febbraio 2008)

27 commenti a questo articolo

"Siamo sicuri che l’Italia di Dante sia messa meglio del Sudafrica?"
2008-02-16 21:38:12|



La minoranza sia ragionevole

E’ di pochi giorni fa la notizia sul nuovo analfabetismo anche tra laureati. Per cui capita che un medico chieda al collega di aiutarlo a «diramare» un dubbio. Niente da dire sui diritti di una minoranza. Ma è anche sacrosanto che la maggioranza faccia valere un minimo di ragionevolezza. Che suggerirebbe, in un momento in cui l’ insegnamento dell’ italiano stenta a conquistare una posizione sufficiente, di puntare sulla grammatica della lingua nazionale. Mentre sarebbe arduo pensare a una codificazione scolastica della multiforme «marilenghe» che non tagli fuori i sacri diritti dei parlanti, che so, di Cormons o di Zoppola. E poi andate a vedere il blog Il furlanist. Notizia del giorno: «Illy al si dimet par fâ sì che si fasedi l’ election day». Difesa di una cultura minoritaria?

Di Stefano Paolo

15 febbraio 2008

Corriere della Sera


"Siamo sicuri che l’Italia di Dante sia messa meglio del Sudafrica?"
2008-02-11 11:56:16|

Ah, era dunque "Dante" l’autore dei post a cui stavo rispondendo?!
non era sempre chiaro: la firma è stata spesso omessa.
(erminia è, in effetti, uno pseudonimo, essendo il mio vero nome Hermione).

i dentisti (quelli che si dicono o che crediamo tali) sono, spesso, degli odontotecnici, e non credo che a questa categoria di lavoratori specializzati in una branca tecnica si possa rimproverare con tanta enfasi di essere incompetente sul piano linguistico. basta che gli apparecchi per la correzione dei denti dei nostri figli funzionino, dati gli alti costi.

che un politico, o un prete, o un insegnante sia incompetente sul piano delle espressioni che impiega, a detrimento del messaggio che porge, è ben più grave.

ben più grave - e inammissibile - che un marxista sedicente faccia un film interpretando con ampio autocompiacimento un nevrotico capitalista e ci esponga pure le sue chiappe, alla faccia del messaggio che solitamente ci porgeva (questo di Moretti in inglese si chiama “mooning”, ed è uno sbeffeggiamento alquanto brutale) .
rtmi (velocemente, da scuola)


"Siamo sicuri che l’Italia di Dante sia messa meglio del Sudafrica?"
2008-02-11 11:08:31|

Non ho bisogno di sedere nessun esame di lettere (scusa l’anglismo): sono già docente di ruolo da tempo!
:) erminia


"Siamo sicuri che l’Italia di Dante sia messa meglio del Sudafrica?"
2008-02-11 09:48:40|

Il linguista che nell’articolo racconta l’aneddoto del "diramato" sicuramente non è un conservatore, ma rispetta l’evoluzione degli idiomi. Tuttavia rabbrividisce quando avverte l’incapacità lessicale del dentista (perché di questo si tratta, insisto: quello stimato professionista non aveva verosimilmente scelto di usare il terzo significato dal De Mauro, voleva solo dire "dirimere" ma per ignoranza s’è sbagliato, e il collega pietoso forse l’ha capito lo stesso, ma non era obbligato) perché giustamente fa uno più uno: un dentista che sbaglia le parole è un dentista che non legge, se non legge non si aggiorna, se non s’aggiorna non è un buon dentista, ahimé poveri i miei denti. Tu puoi anche preferire l’ipotesi che fosse invece un po’ fumato o già in alzheimer, ma ti consiglierei di fissare altrove un appuntamento per un’otturazione.
La lingua si evolve per processo darwiniano: produce continuamente parole mutanti, ma la stragrande maggioranza di esse non sopravvive perché il loro difetto è letale; a volte invece il difetto è virtuoso, ossia consente al mutante di adattarsi meglio all’ambiente dell’individuo comune (fuor di metafora: la parola nuova è più efficace, chiara e meno ambigua di quelle comunemente usate), quindi pian piano la parola nuova si afferma nel cerchio dei parlanti per comune e maggioritaria accettazione. Viva il darwinismo lessical-grammaticale: sennò parleremmo ancora tutti come l’uomo di Cro-Magnon.
Mi permetto solo di insistere nell’opinione che "diramare" nel senso come minimo desueto di "risolvere, chiarire" sia una parola mutante (o meglio, troppo mutata, arcaica) destinata a estinzione rapida, causa ambiguità eccedente. Può piacere al tuo idioma privato, ma mon ti consiglierei, ad un esame di concorso per insegnante di lettere, di utilizzarla al posto di "dirimere".
Sull’anonimato: perché Dante sarebbe più anonimo di Erminia?

ciao


"Siamo sicuri che l’Italia di Dante sia messa meglio del Sudafrica?"
2008-02-10 20:03:55|

anonimo: per idioma intendo uso idiomatico di una data parola all’interno di una data espressione e infatti, a volere essere proprio fiscali, dei tre (3) significati del verbo diramare, dati da de Mauro, è proprio il primo, il più idiomatico dei tre, è proprio il primo ad essere quello meno vicino al significato letterale del verbo "diramare", che infatti non indica nessun "diffondere", ma infatti "sfoltire", "privare", "eliminare" (rami):

1 CO rendere noto, trasmettere: d. una notizia, una comunicazione, un ordine

2 BU potare, privare di alcuni o di tutti i rami

3 OB dividere in rami

Dunque, tra "diramare una notizia" e "diramare i dubbi" credo sia più vicino al significato letterale l’espressione criticata, prodotta dal caro dentista.

con questo, ho diramato anche tutte le altre ambiguità annesse e connesse.

erminia


"Siamo sicuri che l’Italia di Dante sia messa meglio del Sudafrica?"
2008-02-10 19:55:52|

allora, mi dispiace un poco non sapere con chi io stia interloquendo, perché sto rispondendo a delle risposte e sollecitazioni anonime: peccato per la comunicazione.

uhm,...quel dentista non lo conosco ma certamente senza difficoltà lo assolvo...che sarà mai: forse era un sintomo di demenza precox, poverino. oppure aveva fumato uno spinello? chissà---la lingua si deteriora e degenera per cause non sempre chiare all’interlocutore, come nell’afasia, evento che per me è mirabilmente creativo, per altri, patologico.

penso che i ’dentisti’ servano abbastanza bene la comunità e che dunque una loro eventuale inefficienza o incompetenza linguistico-espressiva non sia da condannare con tanto affanno.

penso che l’altro medico avesse capito, afferrato frontalmente il senso del messaggio malgrado il "mis-usage", e credo che poi l’abbia criticato in un momento successivo, trasversalmente (sennò come ne saremmo venuti a conoscenza non essendo presenti l misfatto?), ovvero alle spalle, per quel vezzo tipico degli uomini di pugnalarsi appena uno si gira, specie se collega...

:)

e, sì, credo anche che un dato uso idiomatico possa partire da una persona singola... e poi diffondersi alla cerchia stretta, man mano allargandosi (a velocità da stabilirsi anche sulla base della popolarità del parlante.)

non è grave, non credo sia grave vedere la lingua subire queste derive....questi dissesti: mica la lingua è una sfera sacra?

(chiaro, se si odia la categoria dei dentisti, il tutto diventa più difficile, indigeribile...)

addio, vado a ‘diramare’ le mie sopracciglia.

ermi


"Siamo sicuri che l’Italia di Dante sia messa meglio del Sudafrica?"
2008-02-10 18:13:17|

Erminia mi sa che anche tu non leggi bene i post altrui. Ilcuore del mio era l’efficacia della comunicazione come base di qualsiasi evoluzione della lingua.
Se usi una parola che ha un senso ambiguo (e la usi oltretutto solo perché non ne conosci il vero significato, non per innovare l’idioma) vuol dire che stai fallendo la comunicazione, quindi non stai innovando un bel nulla. E quella non era poesia (che comunque è anche comunicazione), ma comunicazione funzionale, diretta a uno scopo preciso (curare dei denti), scopo che viene clamorosamente fallito a
meno che l’interlocutore con capisca che non si è trattato di invenzione di idiomi ma di svarione, immagini qualera il vocabolo corretto e riprenda,per sua buona volontà, la comunicazione scassata.
Pensi davvero che quel dentista intendesse "aiutami a sfrondare i rami attorno a questo mio dubbio"? O è solo la generosa, soccorrevole, se vuoi anche poetica interpretazione che tu gli presti? Ehi, non sarai mica la cugina di quel dentista? ;-)
Ti chiederei anche di definire meglio "idioma". Pensi che possano esistere idiomi individuali del tutto opachi per gli ad altri? E se sì, a cosa servono se non ad una personale, spesso incomunicabile poetica?
Per amor di discussione, ovviamente


"Siamo sicuri che l’Italia di Dante sia messa meglio del Sudafrica?"
2008-02-10 17:49:10|di erminia

diramare significa appunto come terzo significato (vedi sempre dizionario
de Mauro) sfrondare dai rami. dunque potrebbe essere sfrondare dai dubbi. da qui, l’idea che l’idioma potesse essere creato ex-novo da un senso figurato dato dal diramare---

1 CO rendere noto, trasmettere: d. una notizia, una comunicazione, un ordine

2 BU potare, privare di alcuni o di tutti i rami

3 OB dividere in rami

:) adesso torna alla mia risposta precedente (due fà) e rileggi il mio intervento sul senso possibile di un nuovo idioma.

a-dio, torno a diramare la mia serata dai suoi crucci e doveri.


"Siamo sicuri che l’Italia di Dante sia messa meglio del Sudafrica?"
2008-02-10 17:44:25|di erminia

Intendevo che ha inventato l’idioma. Ho anche ciatto il significto del verbo "diramare" (controlla che nella mia risposta do uno dei tre significati...uhmm.

vale leggere con calma le risposte senza saltare in aria...come vedrai leggendo con la dovuta calma, io ho detto che è l’idioma, e non il verbo, ad essere nuovo.)

grazie dell’interazione, cmq ti consiglio la prossima volta di soppesare meglio i contenuti delle risposte altrui per evitare di ’diramarli’ in altri significati non presenti.
:)


"Siamo sicuri che l’Italia di Dante sia messa meglio del Sudafrica?"
2008-02-10 16:07:42|

Ma che stai dicendo? Quel medico non ha "inventato" affatto un nuovo verbo, ne ha semplicemente confusi tra loro, per ignoranza, due già esistenti, ha preso lucciole per lanterne. "Diramare" esiste e vuol dire diffondere. Quindi, sulla base del senso comunemente accettato delle parole, senza il quale non esiste comunicazizone, e al di là delle sue intenzioni, lui ha chiesto a un collega di aiutarlo a "diffondere" il suo dubbio anziché (come credeva lui) a "risolverlo". Non c’è "contesto siognificantte" che tenga, qui c’è solo ambiguità non intenzionale. Insomma quel medico ha detto l’esatto contrario di quel che funzionalmente gli serviva dire, dunque ha fallito clamorosamente una comunicazione, non ha arricchito il linguaggio comune di una nuova proposta. Ha creato confusione, non un’opportunità in più. Ha dimostrato ignoranza non creratività. Uno sfacelo su tutta la linea. Non cercare di salvarlo. Le lingue evolvono quando una nuova parola si afferma come più utile e funzionale, non quando crea un’ambiguità maggiore.


Commenti precedenti:
1 | 2 | 3 |>

Commenta questo articolo


moderato a priori

Questo forum è moderato a priori: il tuo contributo apparirà solo dopo essere stato approvato da un amministratore del sito.

Un messaggio, un commento?
  • (Per creare dei paragrafi indipendenti, lasciare fra loro delle righe vuote.)

Chi sei? (opzionale)