Absolute Poetry 2.0
Collective Multimedia e-Zine
Coordinamento: Luigi Nacci & Lello Voce
Redatta da:
Luca Baldoni, Valerio Cuccaroni, Vincenzo Frungillo, Enzo Mansueto, Francesca Matteoni, Renata Morresi, Gianmaria Nerli, Fabio Orecchini, Alessandro Raveggi, Lidia Riviello, Federico Scaramuccia, Marco Simonelli, Sparajurij, Francesco Terzago, Italo Testa, Maria Valente.
Sul performer, sul poeta performativo fatto e da farsi
Voce
Il poeta è voce, e ogni poesia è abitata dal desiderio della viva voce (Zumthor). Ci sono culture in cui la voce viene trattata come creta, per differenziare i generi poetici, dai griot del Mali ai cantadores del sertão brasiliano. Ma non serve arretrare troppo nel tempo o spostarsi nello spazio per trovare mirabili esempi di modulazione e sperimentazione vocale: Demetrio Stratos, il cantante degli Area, varca la soglia delle quadrifonie, un limite raggiunto e superato da pochissimi nella storia della musica. Secondo Stratos, nella musica occidentale contemporanea la voce è un canale di trasmissione che non trasmette più nulla (una voce svuotata del suo valore demiurgico, la cui istanza vitalistica è stata incanalata dentro la griglia del galateo e dell’indifferenziazione, dice Bologna); l’ipertrofia vocale ha reso il cantante moderno insensibile ai diversi aspetti della vocalità, isolato in un processo di mummificazione in cui stanno, come imbalsamate, consuetudini espressive istituzionalizzate dalla cultura delle classi dominanti. Opporsi alla voce irregimentata del nostro tempo significherebbe scatenare un turbamento tanto nel mondo musicale quanto nell’ordine sociale.
Stratos critica quei performer che sacrificano le specificità della vocalità in nome di una presunta teatralità del canto, giudicandoli superficiali. Liberarsi dei codici comporta l’adozione del nomadismo come asse portante della propria ricerca, che deve necessariamente essere multidisciplinare, multiculturale e allo stesso tempo esplorazione del proprio corpo-laboratorio. La voce è la via d’accesso al corpo e alla sessualità, se e solo se emessa in un ampio, sempre più ampio, ventaglio di possibilità.
Le emozioni più intense, ricorda Zumthor, suscitano il suono della voce, di rado il linguaggio: il grido della nascita, il grido dei bambini che giocano, il grido che strappa una perdita irreparabile o una gioia indicibile, il grido di guerra, che con tutta la sua forza aspira a farsi canto.
Performer
Il performer, dice Grotowski (con la “P” maiuscola), è un uomo d’azione, un guerriero che non indossa l’armatura di nessun altro. Tra teatro, musica, pittura, poesia, scultura non vi sono più differenze, l’opera è un fluxus che sommerge impetuosamente il tempo e lo spazio. La nozione di categoria viene sostituita da quella di continuità – nel flusso i linguaggi si scontrano dando origine a gorgoglianti conflitti che generano, per dirla con Fontana, strategie di demistificazione “a caldo”, piani di conflagrazione, di caustica analisi.
Il performer deve conoscere profondamente le tecniche compositive e attuative di molte discipline, in caso contrario non potrebbe scardinare e rendere visibili gli snodi, gli incroci, gli ingorghi. Non deve essere servo di alcuna disciplina per non farsi ingabbiare da essa: il suo è uno sguardo a 360 gradi, schizofrenico e vitalistico.
Grotowski sostiene – su questo punto tornerò – che il performer non può aspirare a vaste platee: egli non deve appagare le rassicuranti esigenze dello spettatore, siano esse di svago o di consolidamento del proprio “io”; il suo è un pubblico d’élite, che nutre autentiche esigenze spirituali e che desidera auto-analizzarsi, non pago della sua geometrica stabilità spirituale. Il performer destabilizza lo spettatore, è – come dice Cage riferendosi a se stesso – una mente e un corpo interessati al cambiamento. Si tratta di rivoluzionare l’orizzonte di attesa dello spettatore insieme alle sue convinzioni sull’arte, sulla società, sul mondo e sul suo posto all’interno e in relazione ad essi.
Happening, performance
Quando Cage parla dell’happening, spiega che sia chi agisce, sia chi subisce e partecipa all’evento, deve essere sul punto di lasciare che avvenga qualsiasi cosa: non si hanno idee o sentimenti da esprimere, c’è piuttosto la volontà di dirigersi verso una situazione ignota, perché si è interessati non ad esprimere idee o sentimenti, ma ad aumentare la propria consapevolezza e curiosità; solo allora si creerà una situazione estremamente complessa per far sì che qualcosa possa accadere, e ciò che accadrà non sarà qualcosa che si aveva in mente, ma sarà precisamente qualcosa che non si aveva in mente (come una rete per catturare pesci che non conosciamo, dice Cage).
Nell’happening l’elemento centrale è rappresentato dal ciò che viene fuori, ciò che sgorga lì e solo lì, in quel preciso (casuale) momento, al cospetto dei presenti. Ad essere bandita è l’intenzionalità, il desiderio che accada qualcosa e non qualcos’altro (Cage parla proprio della necessità di una “intenzionale non intenzionalità”); non vi è alcun coriaceo centro di interesse: ciò che interessa è l’insieme.
Nella performance permane l’aspetto di improvvisazione, ovvero la variabile spazio/tempo di esecuzione e l’imprescindibile interazione con il pubblico; permane anche la visione d’insieme, ma non può essere bandita l’intenzionalità: l’azione deve essere fermamente tesa in una o più direzioni, verso un approdo, sotto l’occhio vigile della poetica.
Inoltre, ricopre una funzione centrale la fase dell’addestramento: guidato da un maestro, il performer lavora alla decostruzione del proprio corpo (l’utopia di Artaud: un corpo senza organi) e della propria idea di sé.
L’addestramento non è prerogativa esclusiva del teatro, il quale non è che un nodo del continuum-performance, il cui vasto spettro ingloba eventi dissimili in una mappa apertissima, (vedi Schechner): riti di iniziazione, pellegrinaggi, esecuzioni capitali, sedute di laurea, processi, spettacoli di strada, incontri di pugilato, cerimonie aborigene, parate, giochi olimpici, crisi degli ostaggi, elezione del Papa, aule parlamentari, etc.
Anche il poeta, a maggior ragione il poeta contemporaneo, nato e cresciuto nel regno dell’intermedia, può crescere nelle sue possibilità performative – d’altronde, dice Schechner, il sapere performativo appartiene alla tradizione orale. Per farlo deve mettere in discussione le proprie tecniche di formazione dell’opera e, come detto, la sua fisicità (contro il declamatore passatista, un burattino, immobile sulle sue gambe, Marinetti prefigura un campione dello sport lirico, che declami con le gambe e con le braccia…).
Tuttavia: liquidità
Il performer non può essere visto solo e soltanto come un destabilizzatore, un decostruttore delle aspettative standardizzate del pubblico. Né come una sorta di guru che, mediante il suo armamentario (per riprendere l’immagine belligerante di Grotowski), punti a divaricare i chakra dello spettatore, per liberare le sue energie represse. Né come un donchisciotte solitario che sa di non poter parlare che a pochi, perché solo pochi potranno essere iniziati. Affermare che non deve essere queste cose, o solo queste cose, non significa auspicare un performer ridotto a, per citare Carmelo Bene, superficiale dicitore, conferenziere atto a riferire pedissequamente le parole di altri. Se è vero che il performer deve avere svolto un duro lavoro sul suo corpo e sulle sue voci, non è però necessariamente vero che egli debba sempre e per forza colpire lo spettatore con le sue (che gli appartengono, così come lui appartiene ad esse, e da esse ne è scalzato) voci più inquiete e grottesche. Il modello di riferimento non può essere solamente il grido disumano di Artaud (non fa mai male ricordare i sinceri e appassionati lettori dei romanzi d’appendice messi a confronto, ne I quaderni del carcere, con i frequentatori dei salotti “colti”…).
Il performer della società liquida comunica a spettatori cronicamente ansiosi, sudati per le quotidiane (rin)corse a cui sono soggetti, collegati ai propri prossimi da relazioni debolissime, bombardati da una quantità incalcolabile di informazioni, disorientati e timorosi del presente e del futuro, in attesa di essere singolarmente prescelti dal salvatore di turno. Il performer corre diversi rischi: dare l’impressione di poter fornire una prospettiva salvifica; passare per l’ennesimo provocatore che suscita la classica sentenza del “già visto”, “già sentito”; assumere le sembianze di una macchina produttrice di sensazioni pronta a farsi usare dallo spettatore-consumatore (di individui procacciatori di sensazioni parla Bauman). Corre anche il rischio opposto: onde evitare di cadere nella figura del salvatore, del postpostavanguardista, dell’illusionista, può appiattirsi nella sfera comica, e non nel senso di comicus, bensì di cabarettista, dispensatore di viz (non di humorem).
Tuttavia: sogno, speranza (Bloch)
Se viviamo in un mondo liquido, il performer deve avere le gambe a mollo nel liquido (acqua, melma, merda, sperma, lava, etc.). Come gli spettatori-superstiti che gli stanno intorno, non ha appigli, ma non deve smettere di nuotare; non in circolo, ma verso la terra ferma. All’angoscia, che restringe gli orizzonti visivi e paralizza, deve opporre la capacità di sognare ad occhi aperti: d’altronde, quando uno sogna, non resta mai fermo al suo posto. I desideri possono essere irragionevoli, dal momento che restano anche laddove la volontà non può cambiare lo stato delle cose. Il performer deve cercare di far lievitare negli spettatori la volontà di desiderare, in un crescendo che conduca al desiderio dell’andare-verso-la-riva. Ogni individuo, infatti, mentre crea immagini di desiderio, le innerva di progetti intrinsecamente tesi alla loro effettiva realizzazione.
Dato che la speranza, per poter far presa e crescere, necessita di un iniziale depotenziamento del concetto di realtà, il performer deve puntare alla visionarietà (partire dai possibili, anche se lontanissimi): corpo, voce, parola e eventuali supporti multimediali devono realizzare un unico impasto di sogni e prospettive di cambiamenti in cui lo spettatore sia attirato (un rapimento nonviolento). Tale visione deve essere il risultato della fusione di due correnti, fredda e calda: il realismo rigoroso e la passione delle aspirazioni umane.
Non si tratta di far immedesimare lo spettatore singolo in un io-persona, né di persuaderlo o fascinarlo mediante effetti speciali, ma farlo entrare assieme agli altri spettatori in una visione che, seppur irreale, sia descritta il più realisticamente possibile: se la visione si sviluppasse in un mare tempestato di mostri, il performer dovrebbe essere in grado (oltre che con il corpovoce, con la potenza della parola, della prosodia, dei campi semantici che contribuiscono a delimitare i confini della rappresentazione) di dare partorire quei mostri, insieme alla sensazione di essere inzuppati fradici, in preda all’angoscia («dove è il pericolo / cresce anche ciò che salva»: Hölderlin); se l’angoscia svela l’abisso (Heidegger), non si può però fare dell’angoscia lo stato emotivo fondamentale dell’uomo; la speranza annega l’angoscia, sta al di sopra di ogni stato d’animo (Bloch).
Il performer deve far conto di girare un film interamente in piano sequenza, avendo sott’occhio una bozza di sceneggiatura che si modificherà in corso d’opera, e lavorando con attori sconosciuti. Le defezioni saranno contenute se il regista sarà stato in grado di rendere ciascuno (sé compreso) partecipe del progetto-viaggio; se i viaggiatori precari avranno sviluppato il comune desiderio utopico dell’andare-verso-la-riva, la performance sarà riuscita (tale comunanza ideale è percepibile: difficilmente può essere dissimulata sui volti e nelle posture dei rimasti la concentrazione della speranza).
Il poeta performativo fatica
Ovviamente: non tutti i performer sono poeti, né tutti i poeti sono perfomer.
Chi si impegna a costruire un oggetto artistico complesso, costituito sia dal testo chirografico che dalla sua oratura, entrambi dialoganti tra loro, autonomi e senza rapporti gerarchici (parole di Voce), quello è un poeta performativo (parole mie). Non essere né partigiani del suono, né dell’inchiostro, ma sforzarsi di essere dalla parte del suono dell’inchiostro (Voce, di nuovo).
Il poeta lineare produce testi per una lettura silente. Capita non di rado che il poeta lineare critichi aspramente il poeta performativo, accusandolo di spettacolarizzare la poesia. Si identifica il poeta performativo con il giullare di corte, dove la corte è lo spettacolo, e lo spettacolo, per dirla con Debord, è il capitale divenuto immagine: in quest’ottica il poeta performativo non sarebbe che un (volente o nolente) strumento del sistema consumistico, uno dei tanti erogatori di illusioni non dissimili dalle migliaia di merci-illusioni già in circolazione. Ma il poeta performativo, come già detto, non deve dare illusioni, bensì indurre lo spettatore (anche se spectatorem è soltanto colui che guarda, mentre al poeta performativo interessa colui che guarda, ascolta, annusa, assapora, tocca, rielabora e condivide con gli altri) al desiderio dell’andare-verso-la-riva, deve farsi allenatore della speranza.
Capita inoltre che il poeta lineare, dopo aver in lungo e largo predicato, razzoli fino ad un palco, o un microfono, e legga ad alta voce i suoi testi. Se riceve una critica per il modo in cui ha letto, non di rado si difende invocando la sacralità della poesia: qualunque sia la sua voce, è la voce autentica del poeta, e come tale, senza alterazioni indotte, deve sgorgare dalla bocca (della verità, sottinteso).
Il poeta performativo deve rispondere a queste posizioni con i fatti. Siccome parte da una posizione di netto svantaggio (secoli di mutismo, dopo Gutenberg), deve lavorare il doppio. Essendo un artigiano, un manovale, un operaio, non è spaventato dalla fatica. Deve costruire un’opera-poesia (Balestrini): un’opera che, nata sulla carta per essere performata e contaminata (da altre arti e altri artisti), una volta performata e contaminata trasformi a sua volta la parola scritta, in un work-in-progress potenzialmente senza fine. In questo gioco di varianti e variazioni progressive e continue, è altresì utile non perdere di vista, d’orecchio gli equilibri: ciascun cardine dell’opera deve avere le caratteristiche di autonomia e apertura, cioè fruibile sia singolarmente che pluralmente. Un testo debole può diventare accattivante nella voce, se tecnicamente il performer è dotato, dando così man forte ai detrattori della performatività, i quali non di rado muovo l’accusa di “non reggere sulla carta”. Viceversa, un testo prosodicamente e retoricamente forte, frutto di una poetica originale e strutturata, potrà essere rovinato da una performance debole (situazione che si può avverare sia in presenza di un attore che, non tendendo conto dei nodi stretti che legano significante e significato, stravolga superficialmente il testo al fine di suscitare nello spettatore una determinata emozione; sia in presenza del poeta-vate dalla cui bocca sgorgherebbe la verità; sia nel poeta che, pur sprovvisto di un addestramento fisico-vocale, cerchi conforto nella tecnologia – microfoni, mixer, videoproiezioni, basi preregistrate – non facendo altro che inscenare un caos in cui ogni elemento si sfalda disperatamente).
Al di là della formazione tecnica, mutuata in gran parte da certo teatro del Novecento, anche se con le distanze e i “tuttavia” di cui si è parlato in precedenza (i nomi sono molti: Artaud, Beck/Malina, Barba, Bene, Brecht, Brook, Grotowski, Mejerchol’d, Schechner, Stanislavskij, etc.), e della formazione intellettuale tout court, la fatica è doppia anche nell’apprendistato letterario: mentre il poeta lineare si è formato sulla poesia lineare tradizionale, dai classici ai contemporanei, il poeta performativo ha studiato quella e anche altro, non di rado da autodidatta, giacché a scuola e nell’accademia l’altro non era (non è) meritevole nemmeno di citazione. Questo altro è sommariamente riassunto nel paragrafo che segue.
L’altro del poeta performativo
Alle sue spalle risuonano perlomeno un secolo di produzioni (qui si terrà conto in particolare della situazione italiana): le esperienze futuriste del primo Novecento (le partiture ‘ortofoniche’ di Marinetti, le verbalizzazioni a base di grammelot e nonsense di Giacomo Balla, le allitterazioni e le assonanze di Farfa, L’arte dei rumori di Russolo), le esperienze delle avanguardie europee (Majakovskji, Chlebnikov in Russia; Ball, Morgenstern, Hausmann in Germania; Artaud in Francia) e delle nuove avanguardie, nel secondo dopoguerra (il lettrismo di Isidore Isou, la poesia concreta di Chopin, la polipoesia di Blaine in Europa; le sperimentazioni concrete e multimediali dei Noigandres in Brasile; Gysin, l’inventore del cut-up, di cui si servirà nel 1968 Borroughs, uno dei principali animatori, assieme a Kerouac, Corso, Ferlinghetti e Ginsberg, di quella generazione beat che ha contaminato la poesia con il jazz e la musica popolare).
Merita un distinguo ciò che ha alle spalle il poeta-performer nell’Italia del secondo dopoguerra. La rottura nell’ambiente letterario è determinata dalla nascita del Gruppo 63 (nel 1963, anno di costituzione anche del Gruppo 70, che si occuperà principalmente di poesia visiva), formato da autori molto diversi tra di loro, che praticano la poesia lineare e non (Balestrini, Costa, Leonetti, Niccolai, Pagliarani, Rosselli, Sanguineti, Spatola, Vicinelli, etc.); vi sono poi altri autori che, pur non avendo aderito al gruppo, hanno operato a partire dagli anni Sessanta (Lora-Totino) e Settanta (Fontana), e la lista potrebbe ingrossarsi, in special modo inserendo i poeti che hanno collaborato con riviste come “Tam Tam”, fondata nel 1971 da Spatola e Niccolai, e la prima audio-rivista di poesia sonora italiana, “Baobab”, fondata da Spatola nel 1978 (nel n. 4 di Spatola presenta – oralmente – il gruppo Il Dolce Stil Suono, di cui fanno parte Cena, Contò, Fontana, Graffi, Lora Totino, Niccolai, Spatola, Tiziano); non si può inoltre non ricordare un precursore solitario e assai poco studiato: Emilio Villa.
In diversi autori del Gruppo 63 vi è la propensione al disegno di un’opera totale (Verso la poesia totale, si intitola proprio un saggio di Spatola del 1969), in cui la poesia, attraverso una rielaborazione e uno stravolgimento della tradizione, o meglio delle tradizioni, tenta di fondersi assieme alla musica, il teatro e le altre arti; ciò premesso, e messa da parte la classica critica di inoltrarsi in uno sperimentalismo fine a se stesso, che aumenta la distanza tra intellettuali e popolo, credo sia legittimo chiedersi se gli esponenti del gruppo siano stati anche dei performer a tutti gli effetti, oppure lo siano stati solo in parte; ruotando i riflettori sugli autori vicini a “Tamtam” e “Baobab”, o in generale sui poeti sonori, credo sia inoltre legittimo chiedersi se il loro interesse estremo per il rumorismo fonetico non li abbia incanalati nel vicolo del formalismo e dell’autoreferenzialità (Spatola parla esplicitamente di un poeta-spaventapasseri che ridicolizzi il ribrezzo borghese per ogni negazione dei valori, un animale asociale).
Una svolta si ha negli anni Ottanta e Novanta, con la comparsa del Gruppo KB (Durante, Frasca, Frixione, Ottonieri), del Gruppo 93 (Baino, Cepollaro, Voce) e del Collettivo di Pronto Intervento Poetico Altri Luoghi (Berisso, Cademartori, Caserza, Gentiluomo), oltre all’emersione di autori come, ad esempio, Lo Russo, Mesa, Minarelli (che redige nel 1987 il Manifesto della Polipoesia: una commistione tra più linguaggi, in cui la poesia sonora svolge il ruolo di guida), Nove. Alcuni di essi hanno prodotto opere che rimandano simultaneamente alla tradizione lineare, orale e sonora, senza farsi incorporare da nessuna di esse, e traducendosi, sia dal vivo che in registrazione, in performance elaborate, frutto di un ponderato studio della voce e degli altri media. Anche grazie a loro (non solo in quanto autori, ma pure in veste di organizzatori di rassegne e responsabili di spazi editoriali su carta e in web), si sta affacciando in Italia una nuova generazione di poeti che hanno cominciato a intraprendere, senza complessi di inferiorità verso la tradizione lineare, la strada della poesia performativa.
Il poeta performativo: traiettorie
Il poeta performativo, per mettere in pratica una originale e icastica sequenza performativa (Schechner rintraccia sette fasi, assumendo uno schema simile a quello utilizzato in antropologia nell’analisi dei riti di iniziazione: addestramento; laboratorio; prove; riscaldamento; performance vera e propria; raffreddamento; séguiti: strascichi della performance, cioè cambiamenti di status o di condizione esistenziale, critiche, le recensioni, etc.), deve essere dinamicamente teso in più direzioni:
1) riallacciarsi al alcuni nodi (elencati da Ong) caratterizzanti la poesia delle culture di oralità primaria: paratassi in maggior quantità rispetto a ipotassi; parola ridondante (ripetizioni); vicinanza all’esperienza umana (con tendenza al “situazionalismo”) a danno delle classificazioni astratte; rapporto stretto con comunità (che si fonde con l’oratore) da stringersi precipuamente narrando (la narrazione, dice Zumthor, ha creato l’umanità). Tali scelte non sono da ritenersi come scelte di comodo o di rifiuto della complessità, bensì mezzi finalizzati al recupero di una poesia memorabile da una parte (in tal senso potrebbe essere utile anche l’utilizzo di inserti narrativi: confrontarsi con il genere epico, anche se a forza di spallate), dall’altra alla creazione di una comunità, intesa come parte essenziale della performance.
2) Così come è improduttivo concepire l’oralità in maniera negativa (Zumthor), egualmente non bisogna scorgere nei nuovi media una minaccia, quanto piuttosto una risorsa. Va accettata la tesi di Mc Luhan secondo la quale la tecnologia dell’elettronica introduce una forma di comunicazione e di esperienza simile, per ricchezza, a quella dell’epoca pre-Gutenberg; con una postilla non trascurabile, nel solco di Havelock: i media acustici (radio, televisione, disco, etc.) non possono assumersi tutto l’onere della comunicazione nella contemporaneità; si potrebbe anzi dimostrare che la tecnologia che ha ripristinato l’uso dell’orecchio ha nello stesso tempo rafforzato il potere dell’occhio e della parola scritta.
3) Zumthor (anche al punto 4): la poesia orale diretta impegna l’ascoltatore con tutto il suo essere nell’esecuzione (egli è parte integrante dell’esecuzione stessa); la poesia orale mediata lascia insensibile qualcosa in lui. Ciò va tenuto in conto nel corso della composizione dell’opera performativa: se si tratti cioè di opera da realizzarsi dal vivo (unica nella sua irripetibilità) o da affidare alla registrazione e alla riproduzione (sia in cd/dvd, sia in installazioni acustico-visive).
4) L’esecuzione è doppiamente temporalizzata: possiede una propria durata, che si lega indissolubilmente alla durata sociale in cui si inserisce – l’ambiente condiziona la percezione dell’opera; è dunque importante non sottovalutare il luogo di esecuzione e chi lo abita: una performance riuscita non potrà essere ripetuta altrove in forma identica. Ci sono tre modalità esecutive: la voce parlata, la salmodia e il canto (la frontiera tra detto e cantato è labile; vale l’esempio del griot africano: ciò che egli pronuncia non è per il suo gruppo etnico né parola né canto).
5) Rifiutare il mero accompagnamento: non si tratta di scrivere un testo che successivamente sarà musicato o fatto scorrere in un video o agito in diretta da un danzatore o un pittore. Il poeta performer deve dotarsi, come già detto, di una sensibilità registica. Meglio se nella scia di Ejzenstein, che insegna a scomporre il dramma in atti, gli atti in scene, le scene in messa in scena, la messa in scena in nodi di montaggio, e il nodo di montaggio in inquadrature singole (anche Amelia Rosselli auspica una sensibilità, nel poeta, affine a quella dell’operatore cinematografico). Ogni particolare deve essere curato meticolosamente. Non basta quindi scegliere con gusto impressionista la musica o le immagini; ogni scelta deve essere giustificata all’interno della poetica dell’opera totale. Non si può fare arte senza un progetto di poetica, “implicita” o esplicita” che sia (Anceschi). Essa è parte strutturante dell’opera-poesia, ne sviluppa i rapporti, le tensioni, le linee continue.
Sine nomine
Al poeta qui auspicato e tratteggiato per sommi capi e somme lacune, potrebbero essere assegnati molti nomi: poeta totale, polipoeta, poeta performativo, e così via. Minarelli conia poi, partendo dalla distinzione zumthoriana tra oralità (il funzionamento della voce in quanto portatrice di linguaggio) e vocalità (l’insieme delle attività e dei valori che le sono propri, indipendentemente dal linguaggio), un altro termine, vocorale, che vuole descrivere un poeta oscillante senza sosta tra i due poli.
Potrei dunque arrischiarmi nella formulazione di un neologismo, ma preferisco smentirmi ed evitare definizioni insoddisfacenti («pleonastiche, o tautologiche, improprie, superficiali, parziali», citando Voce): la parola poeta basta e avanza. Ecco dunque perché l’aggettivo performativo del titolo è stato barrato. Molto scolasticamente, da etimo: poeta è colui che fa, che inventa, che produce. Colui che – per concludere con le parole di Doplicher tratte dagli ancora attuali Manifesti di “Poesia delle metamorfosi” – non è solo autore di un testo: leggendo in pubblico, intervenendo, contestando, egli attraversa il reale, mette in opera un rituale concreto, capace di organizzare le esigenze dello spettacolo e le esigenze del pensiero dentro le emozioni della parola – ragione come razionalità, non come razionalismo, ragione come motore e terminale di tutti gli impulsi, con la quale attraversare il vuoto in direzioni di utopie ancora da costruire.
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Questo saggio è apparso sul n. 2 del semestrale "in pensiero", come inizio di una discussione a cui hanno preso parte sul n. 3 Dome Bulfaro e, sul n. 4 in uscita, Rosaria Lo Russo.
Sul performer, sul poeta
performativofatto e da farsi2011-02-07 22:59:41|di rasputin
il poeta e’ prima un guerriero poi un poeta perche’ la poesia senza guerra e’ una lagna