Absolute Poetry 2.0
Collective Multimedia e-Zine
Coordinamento: Luigi Nacci & Lello Voce
Redatta da:
Luca Baldoni, Valerio Cuccaroni, Vincenzo Frungillo, Enzo Mansueto, Francesca Matteoni, Renata Morresi, Gianmaria Nerli, Fabio Orecchini, Alessandro Raveggi, Lidia Riviello, Federico Scaramuccia, Marco Simonelli, Sparajurij, Francesco Terzago, Italo Testa, Maria Valente.
Tra note e notti. Un’ulteriore piccola nota su:
Stabat Mater, romanzo di Tiziano Scarpa
Le pupille di Cecilia, protagonista di Stabat Mater, sono la luna dell’orfanotrofio. Quando i corpi sprofondano sul cuscino, e le notti invadono l’istituto del loro buio, Cecilia vaga a memoria come la luna nello spazio infinito. Fa il suo giro, raccoglie con dita ossute e agili di violinista gli spettri dagli angoli e a loro si affida.
L’intera vicenda è un’invisibile orchestra tempestosa di visioni offerte al lettore. E Cecila è un fiume imprigionato dalle grate metalliche della Chiesa e da un’assenza. Un vuoto che invade il sangue e il destino: crescere senza sapere come si nasce e da chi. Fa le sue scoperte durante peregrinazioni notturne, vittima di un’insonnia febbrile, dentro miraggi a forma di scale, di cristi in croce, di feti espulsi come feci.
Le sue giornate sono attraversate da cascate di pensieri e di note, ancora nulla che si possa assaggiare con gli occhi o stringere tra le mani. Così come celata al pubblico è la stessa Cecilia quando suona “Per chi ci guarda da laggiù, seduto sui banchi della Chiesa, noi siamo un contorno, una sagoma. Noi siamo un’ombra, un’immaginazione, un sogno.” Sembra quasi che la vista sia il senso che il lettore abbandona alla nascita (del romanzo), come alla nascita (nell’orfanotrofio) è stata abbandonata la protagonista, che per reazione sviluppa una “personalità notturna”, un’esistenza ombra.
Non avendo mai conosciuto la madre, a cui indirizza lettere composte talvolta tra le note di un pentagramma, e non potendo osservare il frutto del suo talento: la musica, Cecilia arreda il suo buio, e impara a incarnare fantasmi. Per paradosso, difatti, l’unica presenza visibile, quasi tangibile, è la Morte con cui dialogare senza tremori, una sorta di Gorgone molesta, ma, a suo modo, leale e reale.
Fino all’arrivo, nell’istituto, di un nuovo insegnante di violino, Antonio Vivaldi. Il prete rosso ha lo stesso effetto d’innumerevoli venezie sulla sorte dei piccioni viaggiatori e dei colombi sporchi. Allora la musica si incarna nel corpo che diventa davvero corpo per la prima volta. Visitato non più da spettri, ma da vento, “da grandine, da afa, da gelo”. E può librare, e si può liberare.
Allo stesso modo, in quest’ultimo meraviglioso lavoro, Tiziano Scarpa riesce a incarnare il verbo, a “intingere la penna per infilarla poi tra le dita della girandola”, a rinchiudere in un sacco i fantasmi che abitano le lingue morte, tramando dentro un piccolo mondo tremendo e antico, l’oscura vertigine dell’immaginazione.
3 commenti a questo articolo
TIZIANO SCARPA/STABAT MATER
2009-07-04 21:43:40|
Ringrazio Luigi per aver proposto la piccola nota. Lo avrei fatto io stesso, e con la stessa intenzione, se non fossi tecnicamente incapace.
Non voglio commentare questioni di invidia, poiché se davvero così fosse, ciascuno, agendo in questo modo, dimostrerebbe da sé ciò che vale.
Personalmente, per quel pochissimo che in questo caso realmente vale, considero Scarpa una stimolante e rassicurante presenza nell’orizzonte della libertà, dell’invenzione e del talento. Oltre che un sincero e generosissimo interlocutore.
TIZIANO SCARPA/STABAT MATER
2009-07-04 20:13:01|di luiginacci
il pezzo di sparajurij è stato pubblicato il 25 novembre 2008 - lo ripropongo con l’auspicio che si discuta del libro (che non ho letto, ma lo farò); dico subito che sono contento abbia vinto scarpa e mi chiedo, come si chiede linnio accorroni su LPELS, come mai NI - che se non erro Scarpa ha fondato - non ne abbia ancora parlato)
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TIZIANO SCARPA/STABAT MATER
2009-08-12 08:24:15|di gino spadon
Così come nell’ascolto della musica sono generalmente le prime note ad attirare la mia attenzione parimenti avviene nella lettura di un romanzo. Sono le prime pagine, (parlo generalizzando, s’intende) che mi attraggono o mi deludono. Quelle del romanzo Stabat Mater di Tiziano Scarpa, recente vincitore del premio “Strega”, non sono certo fatte per entusiasmarmi. Mi ha infastidito la frase “Io sono la mia malattia e la mia cura” che richiama tanto il celebre aforisma di Karl Kraus secondo il quale “la psicoanalisi è quella malattia di cui ritiene di essere la cura”. Consonanza veniale, certo, ma che disturba come disturbano in prosa certe rime o assonanze. Anche lo stile con quelle frasi brevi, tutte singulti, invece di suonarmi come novità mi richiama alla mente certi procedimenti di autori di feuilletons che, essendo pagati a riga, andavano a capo il più spesso possibile, Del contenuto lo specimine di un paio di pagine è troppo breve per dare un giudizio compiuto (lo darò a lettura terminata) ma già basta per un paio di osservazioni Piuttosto discutibile mi sembra tutta la storia dei pesci che agonizzano. Prima l’autore generalizza e dice che “i pesci salgono in superficie, con le bocche spalancate”, poi, immediatamente dopo, individualizza affermando “eccone un altro, viene boccheggiando, muore”. E’ come se io dicessi “Gli uomini soffrono, ma eccone un altro che soffre di più”. Alquanto barocco mi appare il processo delle identificazioni. Tutti i pesci sono “moribondi” ma eccone uno che “boccheggia e muore” ed è l’alter ego dell’io narrante, ed eccone “un altro agonizzante” (???) che incarna “il pensiero del fallimento” vissuto dallo stesso io narrante. Il processo identificativo non è finito perché sulla “riva di un’isola minuscola” c’è una ragazza, che altri non è se non la protagonista, che assiste, senza poter far nulla, alla propria morte. Strana, infine, la causa di questa moria di pesci. Il pesce “Cecilia” (la protagonista del romanzo) è immerso “in un liquido nero, velenoso” ed eccolo salire in superficie… “per morire”. Si direbbe che questo pesce non volesse morire di morte naturale nel mare avvelenato, ma ci tenesse a suicidarsi..
IL TESTO
“Signora Madre, è notte fonda, mi sono alzata e sono venuta qui a scrivervi. Tanto per cambiare, anche questa notte l’angoscia mi ha presa d’assalto. Ormai è una bestia che conosco bene, so come devo fare per non soccombere. Sono diventata un’esperta della mia disperazione.
Io sono la mia malattia e la mia cura.
Una marea di pensieri amari sale e mi prende alla gola. L’importante è riconoscerla subito e reagire, senza lasciarle il tempo di impadronirsi di tutta la mia mente. L’onda cresce rapida e ricopre tutto quanto. E un liquido nero, velenoso. I pesci moribondi salgono in superficie, con le bocche spalancate, annaspano. Eccone un altro, viene su boccheggiando, muore. Quel pesce sono io.
Mi vedo morire, mi guardo dalla riva, ho i piedi già bagnati di quel liquido nero e velenoso.
Arriva in superficie un altro pesce agonizzante, è il pensiero del mio fallimento, sono ancora io quella, sto morendo un’altra volta.
Perché venire a galla? Meglio morire sott’acqua. Vengo tirata giù. Mi sento sprofondare. È tutto buio.
Poi sono di nuovo sulla riva, in piedi, ancora io, ancora viva, guardo il mare velenoso, nero fino all’orizzonte, i pesci morti pullulano, con le bocche spalancate. Sono io, siamo io, mille volte, mille pesci in agonia, mille pensieri di distruzione, sono morta mille volte, continuo a morire senza smettere di agonizzare. Il mare si gonfia, sale, è velenoso, nero.
Sono il pesce con gli occhi velati, salito in superficie per morire. Guardo in alto, sopra la mia testa. C’è un orizzonte livido, le nuvole sono scure, come un mare capovolto, il ciclo nuvoloso è fatto di onde immobili, sfuocate.
Vedo la riva di un’isola minuscola, là in fondo c’è una ragazza che si guarda intorno. Mi guarda mentre muoio, non può fare niente per me, quella ragazza sono io.
Fai qualcosa per me, ragazza sulla riva, fai qualcosa per te stessa. Non lasciarti amareggiare da ciò che senti dentro di te. Dovunque ti volti vedi la tua disfatta. La marea nera sale, è piena di pesci morti. Reagisci, non soccombere”.