Absolute Poetry 2.0
Collective Multimedia e-Zine
Coordinamento: Luigi Nacci & Lello Voce
Redatta da:
Luca Baldoni, Valerio Cuccaroni, Vincenzo Frungillo, Enzo Mansueto, Francesca Matteoni, Renata Morresi, Gianmaria Nerli, Fabio Orecchini, Alessandro Raveggi, Lidia Riviello, Federico Scaramuccia, Marco Simonelli, Sparajurij, Francesco Terzago, Italo Testa, Maria Valente.
Qui sotto riporto alcune note di lettura su una raccolta inedita di Federico Zuliani, intitolata Travelling South, che ho avuto in lettura da Valentino Ronchi e che mi ha molto colpito. Nel .pdf qui a fianco trovate un florilegio.
Per Amleto il dilemma in aut aut, per il desterrado, invece, o per chi è nato e si muove lontano da casa, pare, a leggere Zuliani, il dilemma è in et ac. L’essere e il non essere sono la condizione, per chi è lontano da casa, la forma che regge è quella del dubbio sciolto nella contraddizione. L’essere e il non essere, l’essere qui (nel corpo) e là (nella mente, e viceversa). “My heart is in the East, and I am at the ends of the West; / How can I taste what I eat and how could it be pleasing to me?”, scriveva Yehudah ha-Levi, ma per il desterrado Zuliani la condizione non è tanto lineare, non si risolve nell’essere qui e non essere là. Non è insomma la semplice (in quanto orientata) condizione dell’esiliato, che ha la sua terra (Santa) in un inaccessibile ma ben determinato luogo fisico. In Zuliani “qui” e “là”, quali deittici, perdono di senso quando le coordinate dei loro denotati si invertono, e si ha piena la coscienza che il “Travelling South” si invertirà prima o poi in un Travelling North. Mente e corpo sono pure difficili da tenere distinti, s’invertono anch’essi, per esempio, se il ricordo (e.g. della vita “perfetta, ed eterna / come la vita di chi va ancora all’asilo”, e chissà dove) è più corporeo del corpo presente, in un luogo di non appartenenza; oppure quando il corpo presente è diventato spirituale, quasi un concetto, in un paesaggio che non riesce a individuarlo, che non offre collocazione e dunque non è propriamente un luogo. Per tanto, soltanto la forma della contraddizione, la forma di ‘A e non A’, sembra poter esprimere adeguatamente questa condizione. Zuliani il desterrado è il terzo escluso.
“Pianura di campi immensi e di uomini integri,
sei la mia fede, il luogo da cui non si parte
ma a cui si torna, sempre.”
E ancora:
“Nel bosco poi la notte senza fine scopre che anche il buio
ha fine.”
Per questo Amleto, o meglio per questo Iago (“I am not what I am”), una salvezza è - perchance - solo nel sonno, proprio - perchance - la stessa tentazione dell’altro Amleto – “to sleep - / To sleep, perchance to dream”. Un sogno per il desterrado è l’esistenza in veglia, che è tempo onirico e utopico perché speso in una dissociazione tra lingua e orecchio, luogo della mente e luogo del corpo, mente e corpo stessi. Il sonno è allora un "invito a cadere", e la tentazione a "lasciarsi dormire" soffre di una ambivalenza (ancora, la forma della contraddizione) tra salvazione e perdizione.
“e l’Irlanda questa notte è in lontananza arancio, e qui vicino verde
quasi un invito a cadere, e a dire basta, o a lasciarsi dormire.”
“Tu mi hai guardato, e senza che te lo permettessi
hai visto il buio profondo in cui cade il mio cuore
lo strapiombo senza appigli dove vado a dormire”
Scrive altrove Zuliani:
"[...] non penso sia un caso che si parli degli ebrei come del popolo ’che non ha dove appoggiare il capo’. Dormire è per me, più che un’immagine della morte che sarà, è il momento in cui è più palese la nostra fragilità, e al tempo stesso il nostro essere umani. Può essere vinto anche Sansone nel sonno. Anche nelle baracche dei campi erano presenti le tavole dove dormire. Facciamo il letto, lo sistemiamo, lo prepariamo. E poi cerchiamo un posto dove dormire, in modo diverso da come ne cerchiamo per mangiare, per esempio. E’ il momento in cui ci affidiamo agli eventi e in cui confidiamo negli altri (c’è sempre qualcuno di veglia)."
Il sonno è la prima di una serie di immagini di salvezza, proprio perché è una immagine della nostra fragilità. Dove può stare infatti il primo indizio di salvezza se non nell’agnizione della nostra fragilità?
Ma il desterrado non può abbandonarsi del tutto alla culla del sonno, deve levare il capo, e per tanto, oltre il breve ristoro, la verità – l’unico appiglio - è da riconoscersi forse nell’alternanza di sonno e di veglia. Quest’alternanza di sonno e veglia scandisce il tempo di queste poesie.
“Oggi, io e te, ancora una volta
ci siamo svegliati nella città vuota”
“Sogno di te, e di me, (e di altri)
in notti che somigliano ai giorni delle isole
quando la notte continua oltre il mattino”
Da questa alternanza resta determinato, quasi scavato, il luogo reale, la sola permanenza rintracciabile, per l’individuo che ha lasciato la casa, il cui seme è stato seminato lontano dall’origine, ignaro di sé ma consapevole, soltanto, della propria origine, come scrive Zuliani in questi versi splendidi.
“chiuso su questo altopiano dove i miei avi
hanno seminato perché io spuntassi, altrove,
senza sapere più nulla di me, solo di loro.”
— Come si esce da questo Purgatorio?, chiediamo allora a Zuliani, quando la morsa del sonno e della veglia ci stringe la gola, comincia a soffocarci come l’immagine di una forma vuota, che non lascia spazio che a sé stessa, una intercapedine dove l’aria si fa irrespirabile. Il travelling south, ormai lo sappiamo, si invertirà inesorabilmente in un travelling north, et sic in infinitum. Quale salvezza, if any, è possibile, oltre la culla scavata tra tempo e tempo?
Non alla nostalgia, non all’amore, Zuliani chiede salvezza. Chiede però il conforto dell’amore e della nostalgia, il breve ristoro, perché la voce che canta in questi testi è voce umana, mente e corpo forse indistinguibili ma entrambi vivi e mortali, passivi e attivi. L’amore, sia esso un sentimento famigliare o erotico, non riesce però a redimere dalla pena d’alternanza, compresenza e simultanea assenza di tutte le determinazioni e coordinate. L’amore sembra anzi adagiarsi su questa moto di marea perenne, si vuole addormentare con il desterrado, rende dolorosamente sensibile la contraddizione (“Tu sei laggiù./ Mentre io sono qua. Non ho più magliette stanotte”), e resta per ciò chiaro che serve altro per una indicazione di salvezza.
“l’amore che non avevo mi aveva invece trovato, pur rimanendo lontano,
e volle addormentarsi con me, ogni sera, quando non ricordavo neanche
più d’essere altrove, e credevo invece d’essere a casa”
La vicenda di sonno e di veglia è il metro del tempo per l’individuo che non ha luogo, e che è dunque non individuato, per il nostro Iago. Il tempo è allora il solo fiume al quale si possa affidare la poesia-Ofelia, farla flotter “comme un grand lys”. Il tempo, per chi non ha luogo, è il solo panno che tiene insieme le ossa. Il tempo tiene insieme gli idoli della Repubblica Verde, il dio in forma di gatto della Piana da Fal, e l’Europa cristiana, perché “anche da noi / prima di succedere a Pietro i pontefici / erano soliti trarre auspici dai polli.” Il luogo, al contrario, è sempre coperto di neve, è privo di punti di riferimento, una superficie non orientata: il luogo-identità, il luogo-viso, è sfigurato, è sbiancato, scolora nel nulla-quodlibet che segue a una contraddizione (ex falso quodlibet).
“La faccia di questa estate è come un grumo di neve.”
Il tempo è dunque un primo spazio d’una possibile salvezza. Il tempo di Zuliani è il campo sullo sfondo del quale si può toccare, come presente, tutto il passato, si possono toccate tutti i morti (e i vivi che sappiamo già morti, e i morti che sappiamo ancora vivi). Nel tempo, che unisce e non separa, tutto si raggiunge con un “Tu”.
Ma anche questo tempo, in Zuliani, non sfugge alla forma della contraddizione. Il tempo è anzi, come per gli antichi, una contraddizione in movimento, la successione impossibile dei “nun”, “l’immagine in movimento dell’eternità” nel Timeo. Anche il tempo ha in Zuliani il suo doppio. L’altra faccia del tempo è, per il desterrado, la lingua. Tempo e lingua sono i campi di salvezza, e stanno come l’amante e l’amata sulla moneta (il simbolo) che il poeta vorrebbe coniare per vincere la morte: “ognuno in rilievo sopra il vuoto dell’altro.”
La lingua è la lingua italiana, e l’impossibilità di tradirla, è lo spagnolo come lingua bella in cui è possibile il sogno (e che va, per tanto, abbandonata), è la lingua tedesca, ancora uno spazio che si sostituisce allo spazio negato di chi non ha luogo.
“[...] Forse
che questa lingua che uso ma non padroneggio (perché
per troppi secoli l’hanno parlata uomini ben più indegni di me) –
e che
è la patria che mi porto dietro e cui torno sempre –
mi concederà in ultimo parole migliori”
“Mettermi a studiare il tedesco, per me, ha significato
rimettermi finalmente sulla via di casa
riavviandomi al contrario per una strada nota.”
La lingua come doppio del tempo, e, finalmente, nella lingua, l’atomo della lingua, il nome. Il nome è finalmente il luogo, l’hic del desterrado. È il nome il luogo che si sostituisce al luogo fisico, alle coordinate, il nome è anzi il simbolo, il luogo astratto, che determina il luogo fisico, è il totem che pone un limite dove era soltanto indeterminazione, e rende con ciò possibili il movimento e la direzione.
“La sensazione di essere, e di poter andare;
sino a quel nome, pronunciato a fatica,
a quel luogo, in cui mi so ancora aspettato.”
Il nome finalmente, come luogo e salvezza dal luogo, ché la parola è un oggetto e un astratto, un token e un type, vive in questa ambiguità insoluta, in un perenne ‘stare per’, in una suppositio, essere/stare per altro.
“Quando mi sono innamorato di lui Israele era poco più di un nome”
È il nome la terra promessa.
Nota Nato a Milano nel 1983 è in procinto di laurearsi in Storia presso l’Università Statale della stessa città. A partire dall’adolescenza ha vissuto lungi periodi all’estero, tra Argentina, Scandinavia e Asia. Ha pubblicato alcune traduzioni da autori iberici e nordici su riviste e in volume (J.V. Jensen, Alla stazione di Memphis, La Pulce, 2005). Travelling South raccoglie testi scritti tra il 2005 e il 2006.
4 commenti a questo articolo
Travelling South - Federico Zuliani
2008-02-27 23:21:31|
Dopo tanti algidi formalismi (come anche nell’ultimo post di Duale)finalmente un saggio dove sento vibrare l’umanità della poesia. Complimenti!
Giuseppe Luigi Fanozzi
Travelling South - Federico Zuliani
2008-02-24 11:21:28|
"E se non commenti ora, di che commentar suoli?"
Complimenti vivissimi, Zuliani.
A.L.
Travelling South - Federico Zuliani
2008-02-21 23:52:23|di scritture
"Non un Dio ci tiene, ma un nome" condensata in questa frase l’essenza dell’umanità, se tutti ricordiamo il nostro nome, se impariamo il nostro nome a memoria possiamo riconoscere anche il nome dell’altro. E poi il tempo, il tempo del sonno e della veglia, in questo spazio tra veglia e sonno viviamo. E tanto altro ho trovato in questi testi e in queste parole, come essere in un posto che non è il nostro posto che però ci permette di vivere appieno ciò che si è lasciato e trovare nella lingua l’unico posto possibile. Grazie all’autore e a Francesco che mi ha dato la possibilità di scoprir questo autore. Ciao Lucia
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Travelling South - Federico Zuliani
2008-02-27 23:38:02|
Zuliani non passa di qua?