Absolute Poetry 2.0
Collective Multimedia e-Zine

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Voglio vivere in un’altra lingua

Corriere della Sera - La lettura, agosto 2010

Articolo postato venerdì 10 agosto 2012
da Lello Voce

La poesia è l’unica arte che ha cambiato, nel tempo, il suo medium di trasmissione: partorita dalla bocca che la pronunciava, da qualche secolo tace, emigrata dal suono ai segni. In esilio dalla voce. Ma la rivoluzione tecnologica e digitale le ha paradossalmente ricordato le sue origini.
In tutto il mondo essa ha così ripreso la parola, ha iniziato a mescolarsi con altri media, ha rincontrato la musica, a braccetto della quale aveva camminato sin dalle origini, si è fatta video, performance, ha raggiunto grandi fette di pubblico grazie al Poetry slam. E qui da noi? Qui da noi è piena Civilisation du Papier, come avrebbe detto Henri Chopin.

Le case editrici fuggono a gambe levate da qualsiasi apertura verso media diversi: dall’ormai ‘sbiancata’ Einaudi, allo Specchio Mondadori, a Garzanti, e via così, se la poesia in catalogo c’è, è poesia di carta, in collane dirette esclusivamente da pasdaran della lirica ‘muta’, veri feudi, da decenni nelle mani dei medesimi baroni, che si limitano a riproporre cloni di se stessi, o repliche infinite di ciò che già piace (a loro), in assenza di qualsiasi seria ricerca del nuovo, scritto o orale che sia. E quando si prova a far qualcosa di diverso, come Bompiani, decenni fa, si concepisce il Cd come un gadget da aggiungere, che poco o nulla ha a che fare con quanto proposto dal libro. Se, a distanza di tempo, si ritenta, come ha fatto Transeuropa, la solfa non cambia di molto.

Per altro verso, poiché è evidente a tutti l’appeal e l’efficacia dell’oralità, anche coloro che non perdono occasione di negare ogni valore allo spoken word, sono poi lesti a saltare sul proscenio e a balbettare i loro versi alla meno peggio, né, taluni di codesti poeti ‘muti di guerra’ (per dirla con Gadda), si negano, per mascherare la pessima qualità della loro esecuzione orale, un’occasionale orchestrina d’accompagnamento, quasi che la poesia fosse una vecchia signora, bisognosa di una badante in chiave di violino, o fosse così semplice realizzare il ‘temperamento’ tra poesia e musica, far risuonare davvero il ritmo che è già nei versi.
Non mancano, peraltro, orde di performer improvvisati, arcadi dell’avanguardia e trombonesche letture attoriali, o imbarazzanti tentativi di video-poetry, come quello di Magrelli che dice i suoi versi su un’altalena che dondola nel cielo metropolitano.
Il Poetry slam, intanto, snobisticamente ignorato dai letterati, è lestamente rubato dal marketing, per promuovere la furberrima Mazzantini, che almeno ha il naso per intuire il vento che soffia.

La Rete, che pure potrebbe costituire un’alternativa (anche multimediale) a tutto questo, si è spesso limitata ad essere una riproposizione digitale, liquida, di ciò che già viveva allo stato solido, cartaceo, silente, mentre Facebook , per le sue stesse caratteristiche, non fa che sviluppare le singole individualità, frammentando la vera forza della Rete, che è la sua capacità di fare sinergia, disperdendola in mille frammenti, fatalmente deboli, diluendola in un flusso scritto, ma impermanente, che non si fa mai rizoma ‘concreto’. Né la critica fa di meglio: gli studiosi italiani, anche i giovani, sono quasi tutti dei critici ‘a una dimensione’, filologi integrali, capaci di leggere solo il testo scritto, e nascondono questa loro evidente povertà di strumenti d’analisi di un evento così complesso e plurale come la poesia odierna, facendo finta che oralità e multimedialità semplicemente non esistano.

Il top della riflessione è, oggi, la polemica tra Carabba e Ostuni, prigioniera di vecchi e inutili bipolarismi Avanguardia/Tradizione, quasi che non fosse ormai chiaro come l’unico modo per rispettare davvero una Tradizione sia rinnovarla e che la Tradizione non è, in fondo, che genealogia dell’Avanguardia.

Tutto ciò che di nuovo pure c’è, e non è poco e a volte di qualità altissima, è spesso strozzato alla nascita, sommerso dall’improvvisazione e dall’ipocrisia, mentre qualsiasi nostalgia di futuro è dispersa nel Medioevo dei privilegi libreschi e ogni proposta editoriale realmente innovativa è puntualmente assassinata dalla gogna cinica della distribuzione e dal monopolio ottuso delle grandi catene di vendita, nell’indifferenza della stampa specializzata. Una situazione triste, che fa venir voglia di andarsene lontani da questa nazione che il più grande e ignorato dei nostri poeti contemporanei, Emilio Villa, chiamava Ytaglia: di andarsene a vivere in un’altra lingua.

2 commenti a questo articolo

Voglio vivere in un’altra lingua
2012-08-17 19:21:07|di Marco Di Pasquale

Concordo con buona parte dell’invettiva, e soprattutto coll’affermazione che dalla tradizione (la maiuscola mi sembra superflua) debba necessariamente e fisiologicamente derivare l’avanguardia o anche il progresso o la rivoluzione. Mi sembra però giusto non innalzare soltanto la propria di forma d’espressione poetica al ruolo di unica possibile ed efficace avanguardia, altrimenti si rischia di accecarsi volontariamente per poter gridare allo scandalo. Anche nella poesia scritta c’è rivoluzione, come c’è nella rete l’opportunità (certo, non sempre ma sicuramente a volte sfruttata) di scardinare la convenzione del segno per sviluppare nuovi organismi di poesia, come ancora c’è nelle occasioni di sincretismo tra le diverse arti, ad esempio la musica o l’arte figurativa: non per mettere l’una al servizio delle altre, bensì per innestare nuovi germogli e creare inediti ibridi.
Non banale ottimismo ma un tentativo di visione più ampia e ariosa, in tempi in cui sarebbe abbassare la lancia ed evitare la polemica fine a se stessi (non è un errore di battitura).

Marco Di Pasquale


Voglio vivere in un’altra lingua
2012-08-10 16:10:33|di Ipazia55

Da dove viene la poesia? Ed è veramente possibile condividerla? Sono domande a cui ogni scrittore potrebbe dare risposte diverse ed egualmente valide. Per tutti, però, la poesia è il frutto di un’esigenza intima e profonda, irrinunciabile come il respiro. Perché scrivere è guardare, guardare con occhi svelati e attenti, guardare attorno ma anche all’interno, con coraggio e a volte severità. Scrivere è attraversare lo specchio del tempo, ripercorrere i giorni – il passato, il presente, il futuro immaginato – con appassionata dedizione.
Nella poesia non ci si risparmia, la poesia non è consolatoria. Eppure, qualche volta, ha l’effetto di una liberazione: epura i pensieri, i dubbi, le incoerenze, dandogli un ritmo e un suono accattivante e significativo. La poesia, nel suo moto inarrestabile di onda che viene e si ritrae, che svela e nasconde, che dona e odombra, offre la possibilità preziosa di attraversare le emozioni, qualunque emozione, senza venirne travolti, e di volgere in musica quell’intenso naufragare. Così che la realtà, quand’anche scomoda e difficile, trova cittadinanza e obliqua, come ci insegna Emily Dickinson, traspare dal foglio bianco, in quel caldo fluire che intreccia la parole all’esperienza, il ritmico battito dei versi al solitario pulsare delle lunghe notti bianche. Ecco, forse la poesia è questo la maggior parte delle volte: un dialogo intimo, come quello tra due amiche che si confidano la quotidiana fatica del proprio sentire.
Per questa ragione, da molto tempo, coltivavo il progetto ambizioso di riunire in un’antologia come in un salotto, alcune delle poetesse più significative del panorama italiano. Dove significativo ovviamente non vuole essere un giudizio di merito (deputato ad altri e in altre sedi), ma il risultato di una scelta programmatica di scrittura, portata avanti negli anni da ciascuna autrice, non soltanto attraverso la propria produzione personale, ma anche tramite l’organizzazione di dibattiti, seminari, occasioni d’incontro varie legate alla scrittura delle donne e non solo. Dunque una scelta a tutto tondo, fondamentale direi, dalla cui posizione fosse possibile offrire una testimonianza forte e concreta, sviluppando un tema che potrebbe essere sintetizzato in due famosi versi della poetessa americana Anne Sexton: “Una donna che scrive sente troppo,/ che prodigi e portenti!” Ecco la scrittura femminile in una definizione minima e assoluta, la creatività femminile che si sostanzia generando parole e magia.
Ma questa è stata soltanto la proposta iniziale. La mia idea, accolta con entusiasmo dai tipi della TRAVEN BOOKS e poi dalle autrici che partecipano a questo volume, è subito germogliata in versi che offrono molteplici spunti di riflessione, occupando spazi forse non ancora sufficientemente esplorati, che riguardano non soltanto la scrittura ma anche la scelta che la precede. In pratica riflettendo l’esperienza personale – quotidiana, famigliare, storica – di artiste a volte molto lontane tra loro per età, stile, formazione e intenti, ma comunque accomunate da un progetto che, in tutte, appare essenziale.
In questo libro si trovano dunque molte poesie così dette di “poetica” e altre che “raccontano” la scrittura in altri termini o sotto aspetti più pratici e terragni. Non tutte le poetesse interpellate, infatti, condividevano la necessità di narrare la propria opera e la sua genesi, né il desiderio e l’interesse per un antico – e secondo alcune inesistente- distinguo tra scrittura femminile e maschile. Se ad alcune è apparso un tema superato, però, ad altre è risultato entusiasmante e di sicura attualità. Come regolarsi di conseguenza? In modo molto semplice e chiaro: accettando che ognuna proponesse la propria personalissima testimonianza, la propria diversità, la propria visione del tema. Per tale ragione alcune delle poesie qui presentate possono apparire meno sintoniche di altre: in realtà i versi di Anne Sexton posti in esergo sono stati interpretati in modo diverso e vario, ma sempre molto convinto.
Infine, appare superfluo ma doveroso ricordare che, come ogni antologia, anche questa peccherà di esclusioni e dimenticanze più o meno evidenti, che purtroppo però costituiscono l’inevitabile limite di questo genere di volumi. Ci si augura che offrendo un discreto ventaglio di autrici contemporanee, il lettore sia stimolato ad approfondire poi per proprio conto la ricerca, consultando i cataloghi e i siti delle case editrici specializzate o le riviste del settore. “Donne di parola” non può essere quindi considerato un elenco esaustivo – è oggettivamente impossibile – ma sicuramente un punto di partenza consolidato dal quale diramare l’attenzione verso nuove e appassionanti lettu


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