di Domenico Ingenito & Fatima Sai

Domenico Ingenito, (Vico Equense, 1982) poeta, traduttore e fotografo, dottorando in lingua e letteratura persiana presso l’Università "L’Orientale" di Napoli, insegna lingua persiana presso la Harvard Summer School in studi ottomani.
Da due anni collabora all’organizzazione della Biennale della Traduzione E.S.T., ed è redattore della rivista "Il Porto di Toledo - testi e studi intorno alla traduzione". Vincitore di numerosi premi letterari, traduce da persiano, portoghese, catalano e spagnolo, ha tradotto per Orientexpress "La Strage dei Fiori - Poesie persiane di Forugh Farrokhzad" e ha ideato il progetto "Riscrivere Hafez", proponendo ai poeti italiani la rivisitazione del massimo poeta persiano di tutti i tempi. Alle traduzioni dal poeta persiano Hafez ha inoltre dedicato uno studio d’impianto ermeneutico pubblicato sulla rivista "Oriente Moderno".
Ha rilasciato interviste di carattere scientifico-divulgativo sulla lirica persiana classica sia alla European School of Translation che alla Radio svizzera.
Al momento lavora alla traduzione delle canzoni d’amore della poetessa persiana medievale La Dama del Mondo (Jahan Malek Khatun), considerata la maggiore voce poetica femminile dell’area islamica.

Fatima Sai (1983). Di madrelingua italiana ed araba, vissuta fra la Siria e il Salento. Dal 1998 al 2001 ha lavorato alla redazione del giornale in lingua araba Marhaban. Dal 2002 è attrice di Astragali Teatro , inserendosi in un percorso che pratica una rigorosa ricerca teatrale, fortemente segnata dalla scrittura poetica del regista Fabio Tolledi. Partecipa a tutte le produzioni più importanti  (Antigone – anatomia della resistenza dell’amore, Doni di guerra, Ulysses’ gramophone – the wake, Noi, emigranti, Persae, Lysistrata – primo studio sull’oscenità del potere). Tutti lavori dalla profonda connotazione multinguistica, e presentati in tutto il Mediterraneo (Albania, Grecia, Cipro, Malta, Turchia, Siria, Giordania, Palestina, Francia, Spagna). Numerosissimi gli altri lavori performativi legati alla lettura di poesia.
Traduce, da e verso l’arabo, poesia, narrativa e saggistica. Lettera internazionale ha pubblicato la sua traduzione di un saggio breve del drammaturgo Sa’dallah Wannous. Ha tradotto verso l’arabo i testi poetici di Tolledi dello spettacolo Nos- l’architettura degli amanti. E’ in uscita presso Argo editore la sua traduzione di alcuni racconti di Adania Shibli, in un’antologia a cura di Monica Ruocco.


الفاظ Alfàz – poesia araba poesia persiana

Se la poesia prende voce in particolari condizioni geo-spirituali dove la parola s’impreziosisce in immagine fatta ghirlanda di suoni a decorare gli spazi e gli sguardi, persiano e arabo sono sicuramente due lingue che vedono buona parte del loro sviluppo storico in contatto strettissimo, ontologico, con il canto poetico. Questa forza ritmica e vocalica, questa profusione d’immagini-miniatura scolpite in oro, argento, turchese e lapislazzuli, era chiara ai romantici, soprattutto tedeschi, i quali videro nella poesia araba e nella poesia persiana la vera fonte di rinnovamento spirituale ed estetico per un’identità letteraria europea prossima all’epoca del nichilismo ed esausta di attingere dal pozzo greco-latino.

Sono bastati poco più che cent’anni all’accademia orientalistica italiana, poco più di un secolo per immergere questi gioielli nella melma delle collezioni d’ossa approntate da filologi dimentichi della materia vibrante d’umano in forma pura. Le poche traduzioni che circolano negli ultimi cinquant’anni sono state pubblicate da persone poco avvezze alla frequentazione dei versi italiani e troppo preoccupate con rocambolesche avventure pseudo-scientifiche e pseudo-filologiche, puntigliosamente raccolte in annali dal regio sigillo, posti a raccogliere polvere dove avveduti bibliotecari coltivano pomodori e foglioline di rucola.

Eminenti studiosi che nel tradurre imitano vaghe reminiscenze del Carducci, pur avventurandosi talvolta in qualche sparuto petrarchismo, studiosi che nel tradurre poesia sono pronti ad affermare in pubblico che tutto sommato quel che conta è il senso, non la forma né il ritmo di ciò che è travasato nel verso, lucreziano miele per la scienza in pillole.

Parlare le lingue che insegnano per loro sarebbe grave peccato, si limitano a balbettarne qualche sillaba avvizzita, ben poco si avventurano oltre l’Adriatico, stranieri in terra straniera, memori di un lontano viaggio di nozze, oppure nostalgici riproduttori di un sistema piramidale di potere accademico che dalla fine dell’Ottocento è rimasto sino ad oggi intatto nei metodi e negli slanci umanistici.

Rari, rarissimi i casi di maestri della parola che hanno avuto il coraggio di riconoscere lo splendore e non rifuggirlo. Non a caso i loro nomi sono un’appendice marginale di questa accademia orientalistica assediata da forfora e metastasi nichilistiche. Faremo di tutto per dare voce a queste persone il cui servizio alla cultura italiana di oggi ancora non è stato pienamente riconosciuto.

Alfàz è una parola araba pronunciata alla persiana, è il plurale di lafz, che significa parola, lettera, pronuncia, suono, accento, senso che scaturisce in una forma impressa nell’aria. L’Iran e i paesi arabi, sia di oggi che dell’ultimo millennio e mezzo, hanno ancora molto da pronunciarci in gola e sotto pelle per ritrovare i sensi in questo stato di totale disorientamento. Siamo contro le cronologie, figlie di uno spirito tassonomista che ha prodotto più disastri estetici che ordine e bellezza: le sollecitazioni che vengono da questo vicino oriente (porta aperta sull’estremità asiatica, i confini del mondo pronunciabile) devono affacciarsi nel tempo presente seguendo linee dove il tempo è stratificato in modo imprevedibile.

E se è vero che “articolare storicamente il passato non significa conoscerlo «come propriamente è stato». Significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell’istante di un pericolo”, allora forse sarà possibile intrecciare le linee del tempo come letti di fiume. Una possibile via per noi che, spauriti, vorremmo dirci traduttori: attaccati alla vita, ostinatamente convinti del dovere della contemporaneità, assetati di incontri e di scambi, eppure consapevoli che operare nel campo dei segni condanna a un perpetuo oscillare fra la vita e la metafisica del segno, senza soluzione di continuità, prede di una logica di seduzione, di cui mai si riesce ad individuare né il punto di sprigionamento, né il piano d’azione.

Sarà nostro compito cogliere questi affioramenti, come fossero pietre appartenenti a strati geologici diversi e che necessitano d’acque di diversa natura perché prendano a brillare anche in italiano.

Domenico Ingenito
Fatima Sai

alfazpoetry@gmail.com

pubblicato mercoledì 10 novembre 2010
Così rossa è la rosa che sulla gota splende che sa ingannare il cuore. Si imprime nello sguardo e lo cattura, bellezza che altera illude chi ti (...)
pubblicato martedì 14 settembre 2010
Aprire una finestra sulla poesia araba per sentirne, forse anche per la prima volta, l’odore e farsi sorprendere da una luce remota è, in questo (...)
 

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La Strage dei Fiori
Poesie persiane di Forugh Farrokhzad *

di Domenico Ingenito

Articolo postato domenica 3 ottobre 2010

Cosa resta di Forugh

Una vita conclusasi violentemente a trentadue anni, quella di Forugh Farrokhzad – nel 1967 – disseminata da polemiche, scandali e da cinque raccolte di poesie di cui l’ultima è postuma. Come postumi sono i quattro decenni di diatribe – divina Forugh – o ingenua voce, bruciata nelle piazze durante gli anni neri, compianta da migliaia di persone ogni inverno sotto la neve, a cercare quelle due giovani mani, quelle due giovani mani / sotterrate dal peso della neve senza sosta.
Ma se sola è la voce che resta, resta la memoria dei suoi versi nella voce di tutti i giovani che recitano, scrivono, si ispirano e rievocano i tempi della sua scrittura. Perché di tutto quanto è stato detto e scavato, in Forugh resta ancora un lembo di tempo per rinnovare lo sguardo sulla poetessa più accesa del Novecento persiano.

Il giardino segreto

Lontana ancora dal sublime addomesticato, la Poesia d’Iran corrisponde al suo Altopiano e si mette in ascolto delle pulsioni che laggiù, in quei testi e in quegli spazi, si accendono dietro i corpi e le parole, le tensioni che crescono tra le persone nei luoghi pubblici. L’immagine di un abbraccio si apre poi, finalmente, in un luogo sempre nascosto dove abbiamo trovato il sentiero nel sogno freddo / e silenzioso delle antiche fenici. Racconta Forugh Farrokhzad: nella conquista del giardino di questi corpi abbiamo trovato la verità nel giardino, / nel timido sguardo di un fiore senza nome.
Del paradisiaco non permane che un riflesso sbiadito, non ho mai desiderato, io / diventare un astro nel miraggio del cielo […]mai stata io, separata dal terreno, / e mai amica delle stelle, / io m’innalzo sulla terra, il giardino della terra è attraversato da confini irrisolvibili se non nella separazione tra le cose, decretata dalle leggi degli uomini, più nero specchio della regola divina. Dei confini tra le cose sono partecipi tutte le culture, di ieri come di oggi. Ma la società iraniana, diversamente dalla nostra, secondo le differenti scale dei tempi e dei luoghi, è legata alle molteplici stratificazioni dell’ambito tradizionale.
Poco è cambiato prima e dopo il confine della rivoluzione islamica, se ai tempi dello Scià erano le minigonne e i bordelli, oggi sono i grattacieli e i blog a convivere con i veli e le antiche melodie di villaggio. Ma è un altro il limite che ci concerne. Per le strade e lungo i testi, tutti gli ambiti tendono a proteggere il cuore di ogni purezza, talvolta con il sangue, talvolta con una bellezza fasciata di nero e d’azzurro. La dissimulazione, l’eloquenza, l’eleganza, il pensiero segreto, la parola stereotipata e gli atteggiamenti conformi alle regole del buon pudore, sono tutti i frammenti di una stessa parete che attraversa ogni luogo. Per proteggere, separare, isolare, coltivare, riportare alla memoria. Oppure, con la voce vera che il silenzio richiede, innalzare quel lacerarsi segreto dell’esistenza unica / di cui i grani più sottili portarono il sole al mondo. Di queste soglie Forugh attraversa il verso più sottile, e per questa scrittura di confine ha sofferto lungo tutta la sua vita.
Centro dei giardini separati e segreti, paradisiaci e nascosti sono i fiori, i fiori che vivono anche liberi e inosservati sull’Altopiano. E i corpi sono fiori, in mille anni di letteratura persiana. E nel fiore i corpi trovano il riflesso di una bellezza già consumata nello sguardo, prima ancora che la mano incontri la mano, e che nell’incontro si spengano le luci.
Fiori sono volti, capelli da annusare, spalle coperte in qualche modo dal vento. Luogo tragico, a suo modo, dove solo in uno spazio vuoto, abitato dal silenzio, faremo fronte al cinismo riversato dai nostri tempi macchiati dal rumore. Godere esteticamente della lirica persiana implica l’incontro con il giardino del corpo, e riconoscere nelle immagini più semplici una strada sottile tra i contorni di un paesaggio sempre simile a se stesso.
Ma in ogni movimento dell’altopiano basta lo sguardo laterale su una nuvola, l’arrivo improvviso sulla piana, l’attesa di una sagoma umana in un villaggio perduto tra le colline per percepire quanta parte dello spazio circostante si aggrappi all’animo di chi desidera.

Le soglie del tempo e dei tempi

Tempo è il confine della sua voce, come in ogni esperienza poetica, ma nel tempo Forugh trova le sue dolci croci, tutto racconta a ritroso la sua raggiunta maturità quando leggiamo la collezione postuma Crediamo pure all’inizio della stagione fredda, presagio scuro che in qualche modo si rivolge a quella Altra nascita, pubblicato nel 1963, dove il tempo di una nuova scrittura tocca la schiena di una morte in strada. E crediamo pure che la scrittura proceda secondo un destino che finge di guardare indietro, quando da dietro attinge per dare forma al movimento di un altro tempo.
Rivolta, vita prima della nascita nuova, nel 1959, e due anni prima Il Muro, fino ai fuochi dei diciassette anni: Prigioniera. E’ uno strano mescolarsi di ieri e di domani, come se le immagini dei giorni venturi fossero forgiate dallo stesso oro di quello che è già stato, incollerò alle mie unghie due petali di dalia, / e m’infilerò i due rossi orecchini / di due rosse ciliegie gemelle. / E c’è una strada dove i ragazzi che / mi amavano sono ancora lì / con i loro capelli spettinati e i colli sottili e le gambe magre, / e pensano ancora al sorriso innocente di quella ragazza / che una sera il vento portò via con sé.
A ogni verso la scrittura precipita tutta verso la sua origine, conscia di questo tempo delle cose ultime, nel fondo nero e turbato che ogni verso richiama alla memoria: e parlami, amato mio / di un’altra me / che troverai di nuovo con gli stessi occhi innamorati / per le strade fredde della notte, / e ricordami / nei suoi baci sofferti, / sulle rughe gentili / accanto ai tuoi occhi.
Sempre presente questa fine, che instaura un precipizio continuo dal momento stesso della scrittura: e morire nella tristezza di una voce che mi dice / – Amo, amo le tue mani –. Non c’è cronologia capace di resistere al doppio sogno di due tempi che si specchiano nella scrittura rapida di questi versi, Forugh contro ogni biografiamo (riesumare, sigillare, scavare nelle lettere disperate, vano sforzo di una lettura critica che crolla) abita un’altra casa, dove piangono al tuo fianco diresti, / le anime dei morti da tempo / loro che riposarono su questo trono / prima di te, nei giorni andati.

La tradizione interrogata e riscritta

Forugh Farrokhzad guarda alla tradizione poetica, dell’occidente oltre che dell’oriente. Pensiamo pure ai versi di quegli espressionisti tedeschi che la poetessa tradusse in persiano durante l’inverno del ’58 a Monaco, un capitolo ancora tutto da studiare. Ma guardiamo soprattutto al poeta trecentesco Hâfez, non a caso centrale nella tradizione tedesca cui Forugh, pensando all’occidente, si era rivolta. E’ del grande poeta di Sciraz la canzone che introduce la prima edizione della raccolta Il Muro:

Ho i fiori in braccio, il vino tra le mani e l’amato mi abbraccia,
in siffatto giorno diventa mio servo il sovrano del mondo.

Non portate alcuna fiamma stanotte all’incontro nostro,
ché piena nel convivio è la luna, nel volto dell’amico nostro.

Lecito è il vino nella nostra religione, eppure vietato
quel vino senza il tuo volto, o cipresso dal corpo fiorito!

Sempre io ascolto le note melodiose del flauto e della lira,
e seguono i miei occhi il rubino delle labbra e il giro della coppa.

Non spargere profumi nel convivio nostro, ché odorose diventano
attimo dopo attimo le nostre narici con i tuoi capelli.

Non chiedermi di saggiare delicate dolcezze di zucchero
perché io muoio dalla voglia di baciare le tue dolci labbra.

Finché stabile dimora farà l’oro d’angoscia nel mio cuore distrutto,
sarà sempre casa mia il vicolo di ogni perdizione.

Di quale vergogna mi parli, se questa è la mia gloria?
E perché mi chiedi della gloria, se non ho alcuna vergogna?

Siamo folli e liberi quando beviamo vino e giochiamo agli sguardi,
quando troverai in questa città qualcuno diverso da noi?

Non parlate male di me al guardiano dei costumi, anche lui
di continuo come noi sta cercando un piacere senza fine.

Hâfez, non sedere mai senza il vino e senza amato,
sono questi i giorni della rosa e del gelsomino, quando il digiuno si spezza.**

Ed è a partire da questo Hâfez (l’autore più conosciuto e più tradotto della storia della lirica persiana), posto in epigrafe nella raccolta di Forugh che riprendiamo il discorso sui fiori. Quanto strana ci sembrerà parte della critica che negli ultimi anni ha riversato in Forugh la presunta volontà di rottura con la tradizione poetica persiana. Certamente erano gli anni della poesia nuova, della liberazione del verso dalle forme che per secoli avevano retto il canone espressivo della lirica. Gli anni in cui nella bocca dei tradizionalisti puttana e modernista suonavano allo stesso modo, eppure il nuovo fervore poetico di ogni koiné letteraria che guardi criticamente al passato non può essere letto esclusivamente secondo i termini di una cesura assoluta.
Ormai resi immuni alla passione che i versi più antichi della nostra tradizione italiana potrebbe e dovrebbe suscitare, difficilmente riusciamo a comprendere come nella fruizione poetica di gran parte degli iraniani di oggi convivano classico e moderno, secondo uno schema estetico che non ci appartiene totalmente. Guardiamo in lontananza i nostri classici, il canone da cui trae origine la nostra lingua, e scopriamo invece, ancora una volta, come in Iran sia sempre presente adesso la voce del passato, nelle sue molte forme dove nel verso è riconosciuto lo slancio di una continuità.
Sono questi i confini in cui confonderci, i margini dove Forugh libera i suoi versi, dove nel versante manifesto dell’esperienza mille fratture coesistono, mentre all’interno sussiste tutto lo spazio per una commistione complessa e irriducibile. Abbandoniamo allora l’idea della lettura critica tesa allo svelamento di una verità oggettiva – storicamente determinata, biografica, contingente – interna al testo e lasciamo che i versi offrano il giusto spazio d’apertura per la domanda di un dialogo ermeneutico.
E in questo fondo turbolento ci accorgiamo di come Forugh dialoghi attivamente con la propria tradizione poetica, una tensione basata sulla scoperta del ritmo che regola il passato, più che sull’imitazione forzata. E di quelle immagini ritroveremo il giardino dove i tempi si accavallano, dove un giardino è conquistato e un altro giardino sta morendo, la parola è fulgente nell’equilibrio che essa cerca oltre la propria semplicità, seminerò le mie mani in giardino / diverrò verde, lo so, lo so, lo so, / e le rondini deporranno le uova / nelle pieghe delle mie dita sporche d’inchiostro.
Pronto sempre è lo sguardo cinico ad accusare di ingenuità la parola semplice, senza distinguere l’aura morbosa che avvolge il nominare gli oggetti del mondo. Uguale è il destino della ripetizione: strumento primo di ogni antica espressione poetica, oggi è percepita quale catalizzatore di repulsione stucchevole. Eppure ripetizione e menzione della parola semplice, purificata nella sua presenza, sono il principale vettore del sacro nel suo senso più esteso. Il pensiero binario sposta di continuo i fuochi dello sguardo verso due poli di irrealizzabile mediazione.
Negare quello spazio di mezzo – sottile – e dorato implica il necessario timore con cui gli oggetti sacri del mondo inducono la persona alla fuga: tutti temono, / tutti hanno paura, ma io e te / siamo legati alla fiamma, all’acqua allo specchio / e non temiamo nulla.

Lettura dei topoi: l’incontro, l’amore, il peccato, la donna:
Pericoli del biografismo e delle letture di genere

In questa dialettica con l’antico la poesia di Forugh rielabora quel motivo dell’incontro amoroso che è cifra emergente di ogni esperienza lirica, ma che nella poesia persiana è per eccellenza il topos dell’irrisolvibile. Ancora una volta è necessario evitare di confondere la semplicità con la superficialità.
Luogo comune è parlare d’amore, ma uno sguardo più attento richiede di convogliare l’attenzione verso le forme dell’estetica erotica presenti in una tradizione letteraria. Forugh Farrokhzad instaura la sua voce sulle fondamenta passate di una poesia che rievoca senza sosta le possibilità o le impossibilità dell’incontro fisico. Rare e sfolgoranti sono nella letteratura persiana classica le occasioni dell’abbraccio, il clima di ogni canto prende forma dalla tensione tra corpi separati dalla necessità o dalla regola.
Amante e amato sono due figurae dell’astrazione erotica, in cui il divino, il corpo, l’amicizia e la devozione politica si mescolano in una spesso indistinta caratterizzazione del genere sessuale.
Su questi margini la nostra poetessa interroga le figurae del passato letterario rivolgendosi più di una volta al romanzo in versi di Leila e Majnun, originariamente racconto arabo poi ricomposto in preziosi distici persiani da Nezâmi di Ganjé nel 1184. La storia dei due giovani amanti rappresenta il modello per eccellenza dell’unione irrealizzabile, laddove Majnun (lett. il pazzo) s’expose alla folle manifestazione del suo desiderio, Leila (lett. la notte) è ritratta nel giardino inaccessibile dove solo l’imminenza della morte offre l’occasione per spezzare il suo silenzio impenetrabile e in tal modo pronunciare il segreto di passione.
La natura irrisolta del rapporto tra il maschile e il femminile presente nel romanzo di Nezami diventa uno degli esempi del contesto in cui Forugh poggia il corpo della propria scrittura e della propria rielaborazione di quel rapporto uomo/donna che nella letteratura persiana è quasi sempre trasfigurato nella mancata realizzazione o nella caratterizzazione omoerotica del “femminino”: è nei miei occhi che si fissa il tuo sguardo, / cosa ne è stato di Leila? E il racconto degli occhi neri? / Non chiederti, non chiederti adesso perché i miei occhi / non sono neri come gli occhi selvatici di Leila. / Se fiorita è la notte negli occhi di Leila / nei miei occhi si apre il fiore di passione infuocata. / Molti i racconti dei piacevoli meandri d’amore / che scivolarono sul fiore delle mie labbra silenziose.
Quello è il racconto, d’altri tempi, e ne conserviamo la memoria, come di questa memoria sono stata partecipe nella distanza. Adesso, invece, un altro equilibrio si apre, chi ama poggia il suo passo sul Sepolcro di Leila – titolo del componimento – riportando al corpo lo spazio della finzione letteraria. E’ questa la poetica dell’incontro che permea gran parte dei versi di Forugh, dove la rielaborazione del classico non ne implica necessariamente la rottura, bensì lo spostamento del livello estesico su un piano che allude alla possibile realizzazione dell’abbraccio.
Tale spostamento esistenziale del piano simbolico tradizionale non inaugura però alcuna scrittura di contingenza biografica, dato che ad ogni modo nella letteratura la soggettivazione (caso estremo: anche nella personale scrittura diaristica) fa parte di un processo di enunciazione che in sé e già altra cosa rispetto al vissuto reale. Per una migliore comprensione futura dei versi di Forugh Farrokhzad sarà necessario tener conto di tale divergenza, in modo da prendere in considerazione l’alchimia con cui essa si rivolge alle figurae letterarie del passato, anziché alla traccia storica del suo vissuto.
E’ però evidente il gioco di specchi intrapreso dalla poetessa, in cui il rapporto con la tradizione è mascherato da un’apparente quanto totale aderenza a una voce intima; versi come ho peccato, peccato, quanto piacere / nell’abbraccio caldo e ardente ho peccato / fra due braccia ho peccato / accese e forti di caldo rancore, ho peccato, hanno suscitato scalpore nel loro tempo e sono stati censurati nelle ultime edizioni delle sue raccolte in ragione di una scrittura che presentava all’interno della propria finzione un orizzonte di aspettative estetiche che alludeva continuamente al reale, mascherando in esso le tracce della tradizione letteraria.
Nella fattispecie, il motivo del “peccato”, gonâh, è uno dei leitmotiv della canzone classica persiana, direttamente legato all’espressione poetica di un’unione fisica illecita. La sua rappresentazione pertanto muove da un ambito tradizionale, ma scava in una modernità che per forza di cose percepirà tutto il valore scandaloso del verso: è tra un peccato-letterario e un peccare-allusione-del reale che la poetessa mostra i segni ambivalenti della sua scrittura.
E’ necessario inquadrare queste linee nel registro generale di una dialettica con la tradizione poetica. Inutile allora cercare i nomi dei corpi maschili che si nascondono dietro questi versi, per non alimentare ulteriormente le pagine rosa della critica scandalistica, oltre che continuare a dare implicitamente della puttana a una grande scrittrice morta quasi mezzo secolo fa: forse lo sai, hai sentito dire che / sulle labbra delle donne, dal cuore, affiorano i “sì”, e i “no”, / mai manifeste le loro fragilità, / segrete, e silenziose e sottili.
Le questioni esposte ci riportano all’icona con cui Forugh è stata sinora recepita nell’alveo della critica letteraria in parte influenzata dai gender studies. L’effettiva (e, di fatto, relativa) inferiorità numerica delle voci femminili nel corpus storico della letteratura persiana ha indotto molti studiosi a riconoscere in Forugh la quintessenza del dissenso femminista. Leggere Forugh secondo una prospettiva femminista ante litteram è un’operazione anacronistica, nonché contraria alle riflessioni della stessa autrice: se la mia poesia può essere considerata femminile, è naturale, sono una donna. E se comunque la mia poesia è giudicata secondo criteri artistici, non credo che il sesso sia un fattore determinante. Si tratta in realtà di un esplicito tradimento delle evidenze testuali e di una riduzione della sua complessa poetica alle categorie eurocentriche dell’impegno sociale e sessuale.
Non negheremo che, in una prospettiva cronologica, la rappresentazione della femminilità da parte di Forugh attraversa vari stadi della definizione del proprio ruolo sessuale. Il primo dei quali, con la raccolta Prigioniera, corrisponde a una sofferta accettazione dei confini imposti dalla sua cultura di riferimento, mentre in Un’Altra Nascita, e ancora più nel suo florilegio postumo Crediamo pure all’inizio della stagione fredda, assistiamo a una completa maturità nella gestione dei codici di genere. Eppure tale percorso dovrebbe essere inquadrato in un più generale sentiero di formazione personale, di cui ineluttabilmente fa parte l’affermazione del carattere del proprio genere sessuale. Di conseguenza è necessario rivolgersi alla maturità artistica riflessa da tale processo di crescita, e notare come di fatto in Forugh il raggiungimento di una fase più matura dell’impegno poetico vada di pari passo con il disimpegno di genere.
Il transitare lungo gli spazi simbolici costitutivi della società iraniana diventa quindi un atto di ribellione che ancora una volta deve essere letto secondo una griglia dell’espressione estetica. Forugh si muove in labirinti nei quali la femminilità non è che un organon particolarmente sensibile della sua personalità poetica.
La religione, il maschio, i valori della società e la famiglia – termini che interessano direttamente gli ambiti della riflessione femminista – non sono negati, bensì legati tra di loro in una rete di relazioni da cui trarre una profonda esperienza artistica ed esistenziale. I vincoli manifesti che caratterizzano la cultura in cui è inscritta e scrive Forugh si tramutano in occasione per lo scavo sul confine, nel quale ritrovare le coordinate della propria presenza: quando la mia fede era impiccata alle fragili corde della giustizia / e in tutta la città / facevano a pezzi il cuore dei miei occhi, / quando soffocarono con il fazzoletto nero della legge / gli occhi infantili del mio amare, / e dalle tempie pulsanti della mia speranza / sgorgavano fiotti di sangue, / quando la mia vita ormai non era più nulla, / nulla, se non il tic-tac di un orologio, / capii che dovevo amare, amare, amare follemente.

Le domande aperte di Forugh

Nella condanna sociale e religiosa si attraversano dolorosamente le fratture della società iraniana tra gli anni ’50 e ’60, stazione dolorosa perché basata sulla scelta radicale di tastare continuamente le pareti delle case in strada. L’Uomo e la Donna diventano quindi specchi biologicamente dissimili di un’unica presenza, rappresentazioni della possibilità dell’abbraccio malgrado la distanza di natura e il crollare dei tempi: il mio uomo / è un essere semplice, / un essere semplice che io / dalla terra nefasta e volgare / ho nascosto nei boschi dei miei seni / come ultimo segno / d’incantevole religione. Le figure del possesso dell’appartenenza sono invertite rispetto alle prime liriche, ma mai si dissolvono, come due fuochi necessariamente accesi per tenere elevata la tensione riflessiva.
La conquista di Forugh pertanto non riguarda esclusivamente la liceità dello sguardo sul corpo maschile, né unicamente la difesa dei giardini dell’incontro in un’epoca che precipita verso il gelo d’indifferenza. La ricerca di un “impegno”, di un “messaggio poetico” nascosto all’interno dei versi si dissolve nella forma delle domande, per sondare, in acque profonde oltre una risposta chiara, il destino generale dell’umano, come si può, come si può fermare chi / paziente, / pesante, / disperso / così procede? /Come si può dire all’uomo che lui non vive, che lui non ha mai vissuto?
Se per Forugh sola è la voce che resta, speriamo di offrire con la traduzione dei suoi versi uno sguardo più nero e più dorato su quelle parole che ancora oggi nell’altopiano iranico proteggono, separano, coltivano, riportano alla memoria. E, soprattutto, domandano:

Pettinerò di nuovo i miei capelli nel vento?
Pianterò di nuovo le viole in giardino?
E lascerò di nuovo i gerani
nel cielo dietro la finestra?
Danzerò di nuovo sui bicchieri?
I rintocchi della porta mi condurranno
di nuovo all’attesa di una voce?


*: Alcune delle traduzioni sono tratte da La Strage dei Fiori – Poesie persiane di Forugh Farrokhzad, introduzione e traduzione a cura di Domenico Ingenito, Orientexpress, 2008, Napoli. Le poesie “Rivolta di Dio”, “Amorosamente” e “La Verde Illusione” sono inedite e sinora apparse esclusivamente sulla rivista on-line Il Porto di Toledo – testi e studi intorno alla traduzione.

** Traduzione di Domenico Ingenito


7 commenti a questo articolo

La Strage dei Fiori
Poesie persiane di Forugh Farrokhzad *

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2014-07-21 10:52:12|di Pass bee Media

Thanks for nice sharing i wish all the best Pass bee Media


La Strage dei Fiori
Poesie persiane di Forugh Farrokhzad *

2011-12-03 14:45:04|di Gabbianozoppo

Vorrei sapere se si può reperire e come il libro in lingua araba,grazie.


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